Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке. Чезаре Павезе

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Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке - Чезаре Павезе


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io dissi che, se il Valino tornava, lo aspettavo. Risposero insieme che delle volte tardava.

      Delle due quella che aveva legato il cane – era scalza e cotta dal sole e aveva addirittura un po’ di pelo sulla bocca – mi guardava con gli occhi scuri e circospetti del Valino. Era la cognata, quella che adesso dormiva con lui; standogli insieme era venuta a somigliargli.

      Entrai nell’aia (di nuovo il cane si avventò), dissi ch’io su quell’aia c’ero stato bambino. Chiesi se il pozzo era sempre là dietro. La vecchia, seduta adesso sulla soglia, borbottò inquieta; l’altra si chinò e raccolse il rastrello caduto davanti all’uscio, poi gridò al ragazzo di guardare dalla riva se vedeva il Pa. Allora dissi che non ce n’era bisogno, passavo là sotto e mi era venuta voglia di rivedere la casa dov’ero cresciuto, ma conoscevo tutti i beni, la riva fino al noce, e potevo girarli da solo, trovarci uno.

      Poi chiesi: – E cos’ha questo ragazzo? è caduto su una zappa?

      Le due donne guardarono da me a lui, che si mise a ridere – rideva senza far voce e serrò subito gli occhi. Conoscevo questo gioco anch’io.

      Dissi: – Cos’hai? come ti chiami?

      Mi rispose la magra cognata. Disse che il medico aveva guardato la gamba di Cinto quell’anno ch’era morta Mentina, quando stavano ancora all’Orto – Mentina era in letto che esclamava e il dottore il giorno prima che morisse le aveva detto che questo qui non aveva le ossa buone per colpa di lei. Mentina gli aveva risposto che gli altri figli ch’eran morti soldati erano sani, ma che questo era nato cosí, lei lo sapeva che quel cane arrabbiato che voleva morderla le avrebbe fatto perdere anche il latte. Il dottore l’aveva strapazzata, aveva detto che non era mica il latte, ma le fascine, andare scalza nella pioggia, mangiare ceci e polenta, portar ceste. Bisognava pensarci prima, aveva detto il dottore, ma adesso non c’era piú tempo. E Mentina aveva detto che intanto gli altri erano venuti sani, e l’indomani era morta.

      Il ragazzo ci ascoltava appoggiato al muro, e mi accorsi che non era che ridesse – aveva le mascelle sporgenti e i denti radi e quella crosta sotto l’occhio – sembrava che ridesse, e stava invece attento.

      Dissi alle donne: – Allora vado a cercare il Valino —. Volevo starmene solo. Ma le donne gridarono al ragazzo: – Muoviti. Va’ a vedere anche tu.

      Cosí mi misi per il prato e costeggiai la vigna, che tra i filari adesso era a stoppia di grano, cotta dal sole. Per quanto dietro la vigna, invece dell’ombra nera dei noccioli, la costa fosse una meliga bassa, tanto che l’occhio ci spaziava, quella campagna era ben minuscola, un fazzoletto. Cinto mi zoppicava dietro e in un momento fummo al noce. Mi parve impossibile di averci tanto girato e giocato, di lí alla strada, di esser sceso nella riva a cercare le noci o le mele cadute, aver passato pomeriggi intieri con la capra e con le ragazze su quell’erba, avere aspettato nelle giornate d’inverno un po’ di sereno per poterci tornare – neanche se questo fosse stato un paese intiero, il mondo. Se di qui non fossi uscito per caso a tredici anni, quando Padrino era andato a stare a Cossano, ancor adesso farei la vita del Valino, o di Cinto. Come avessimo potuto cavarci da mangiare, era un mistero. Allora rosicchiavamo delle mele, delle zucche, dei ceci. La Virgilia riusciva a sfamarci. Ma adesso capivo la faccia scura del Valino che lavorava lavorava e ancora doveva spartire. Se ne vedevano i frutti – quelle donne inferocite, quel ragazzo storpio.

      Chiesi a Cinto se i noccioli li aveva ancora conosciuti. Piantato sul piede sano, mi guardò incredulo, e mi disse che in fondo alla riva ce n’era ancora qualche pianta. Voltandomi a parlare, avevo visto sopra le viti la donna nera che ci osservava dall’aia. Mi vergognai del mio vestito, della camicia, delle scarpe. Da quanto tempo non andavo piú scalzo? Per convincere Cinto che un tempo ero stato anch’io come lui, non bastava che gli parlassi cosí di Gaminella. Per lui Gaminella era il mondo e tutti gliene parlavano cosí. Che cosa avrei detto ai miei tempi se mi fosse comparso davanti un omone come me e io l’avessi accompagnato nei beni? Ebbi un momento l’illusione che a casa mi aspettassero le ragazze e la capra e che a loro avrei raccontato glorioso il grande fatto.

      Adesso Cinto mi veniva dietro interessato. Lo portai fino in fondo alla vigna. Non riconobbi piú i filari; gli chiesi chi aveva fatto il trapianto. Lui cianciava, si dava importanza, mi disse che la madama della Villa era venuta solo ieri a raccogliere i pomodori. – Ve ne ha lasciati? – chiesi. – Noi li avevamo già raccolti, – mi disse.

      Dov’eravamo, dietro la vigna, c’era ancora dell’erba, la conca fresca della capra, e la collina continuava sul nostro capo. Gli feci dire chi abitava nelle case lontane, gli raccontai chi ci stava una volta, quali cani avevano, gli dissi che allora eravamo tutti ragazzi. Lui mi ascoltava e mi diceva che qualcuno ce n’era ancora. Poi gli chiesi se c’era sempre quel nido dei fringuelli sull’albero che spuntava ai nostri piedi dalla riva. Gli chiesi se andava mai nel Belbo a pescare con la cesta.

      Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo – eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore d’allora.

      Gli feci dire se sapeva i paesi intorno. Se era mai stato a Canelli. C’era stato sul carro quando il Pa era andato a vendere l’uva da Gancia. E certi giorni traversavano Belbo coi ragazzi del Piola e andavano sulla ferrata a veder passare il treno.

      Gli raccontai che ai miei tempi questa valle era piú grande, c’era gente che la girava in carrozza e gli uomini avevano la catena d’oro al gilè e le donne del paese, della Stazione, portavano il parasole. Gli raccontai che facevano delle feste – dei matrimoni, dei battesimi, delle Madonne – e venivano da lontano, dalla punta delle colline, venivano i suonatori, i cacciatori, i sindaci. C’erano delle case – palazzine, come quella del Nido sulla collina di Canelli – che avevano delle stanze dove stavano in quindici, in venti, come all’albergo dell’Angelo, e mangiavano, suonavano tutto il giorno. Anche noi ragazzi in quei giorni facevamo delle feste sulle aie, e giocavamo, d’estate, alla settimana; d’inverno, alla trottola sul ghiaccio. La settimana si faceva saltando su una gamba sola, come stava lui, su delle righe di sassolini senza toccare i sassolini. I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare e poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiú – allora si vedeva, non c’erano quegli alberi – tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino.

      Cinto ascoltava a bocca aperta, con la sua crosta sotto l’occhio, seduto contro la sponda.

      – Ero un ragazzo come te, – gli dissi, – e stavo qui con Padrino, avevamo una capra. Io la portavo in pastura. D’inverno quando non passavano piú i cacciatori era brutto, perché non si poteva neanche andare nella riva, tant’acqua e galaverna che c’era, e una volta – adesso non ci sono piú – da Gaminella scendevano i lupi che nei boschi non trovavano piú da mangiare, e la mattina vedevamo i loro passi sulla neve. Sembrano di cane ma sono piú profondi. Io dormivo nella stanza là dietro con le ragazze e sentivamo di notte il lupo lamentarsi che aveva freddo nella riva…

      – Nella riva l’altr’anno c’era un morto, – disse Cinto.

      Mi fermai. Chiesi che morto.

      – Un tedesco, – mi disse. – Che l’avevano sepolto i partigiani in Gaminella. Era tutto scorticato…

      – Cosí vicino alla strada? – dissi.

      – No, veniva da lassú, nella riva. L’acqua l’ha portato in basso e il Pa l’ha trovato sotto il fango e le pietre…

      VII

      Intanto dalla riva veniva lo schianto di una roncola contro il legno, e a ogni colpo Cinto batteva le ciglia.

      – È il Pa, – disse, – è qui sotto.

      Io


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