Decameron. Giovanni Boccaccio

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Decameron - Giovanni Boccaccio


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gli altri smontata in su l’isola e sopra quella un luogo solitario e rimoto trovato, quivi a dolersi del suo Arrighetto si mise tutta sola. E questa maniera ciascun giorno tenendo, avvenne che, essendo ella al suo dolersi occupata, senza che alcuno o marinaro o altri se n’acorgesse, una galea di corsari sopravenne, la quale tutti a man salva gli prese e andò via.

      Madama Beritola, finito il suo diurno lamento, tornata al lito per rivedere i figliuoli, come usata era di fare, niuna persona vi trovò; di che prima si maravigliò e poi, subitamente di quello che avvenuto era sospettando, gli occhi infra ’l mar sospinse e vide la galea, non molto ancora allungata, dietro tirarsi il legnetto: per la qual cosa ottimamente cognobbe, sì come il marito, aver perduti i figliuoli. E povera e sola e abbandonata, senza saper dove mai alcuno doversene ritrovare, quivi vedendosi, tramortita il marito e’ figliuoli chiamando cadde in su il lito. Quivi non era chi con acqua fredda o con altro argomento le smarrite forze rivocasse, per che a bell’agio poterono gli spiriti andar vagando dove lor piacque: ma poi che nel misero corpo le partite forze insieme con le lagrime e col pianto tornate furono, lungamente chiamò i figliuoli e molto per ogni caverna gli andò cercando. Ma poi che la sua fatica conobbe vana e vide la notte sopravenire, sperando e non sappiendo che, di se medesima alquanto divenne sollecita, e dal lito partitasi in quella caverna, dove di piagnere e di dolersi era usa, si ritornò.

      E poi che la notte con molta paura e con dolore inestimabile fu passata e il dì nuovo venuto e già l’ora della terza valicata, essa, che la sera davanti cenato non avea, da fame constretta a pascer l’erbe si diede; e, pasciuta come poté, piangendo a varii pensieri della sua futura vita si diede. Ne’ quali mentre ella dimorava, vide venire una cavriuola e entrare ivi vicino in una caverna e dopo alquanto uscirne e per lo bosco andarsene: per che ella, levatasi, là entrò donde uscita era la cavriuola, e videvi due cavriuoli forse il dì medesimo nati, li quali le parevano la più dolce cosa del mondo e la più vezzosa; e non essendolesi ancora del nuovo parto rasciutto il latte del petto, quegli teneramente prese e al petto gli si pose. Li quali, non rifiutando il servigio, così lei poppavano come la madre avrebber fatto; e d’allora innanzi dalla madre a lei niuna distinzion fecero. Per che, parendo alla gentil donna avere nel diserto luogo alcuna compagnia trovata, l’erbe pascendo e bevendo l’acqua e tante volte piagnendo quante del marito e de’ figliuoli e della sua preterita vita si ricordava, quivi e a vivere e a morire s’era disposta, non meno dimestica della cavriuola divenuta che de’ figliuoli.

      E così dimorando la gentil donna divenuta fiera, avvenne dopo più mesi che per fortuna similmente quivi arrivò uno legnetto di pisani dove ella prima era arrivata, e più giorni vi dimorò. Era sopra quel legno un gentile uomo chiamato Currado de’ marchesi Malespini con una sua donna valorosa e santa; e venivano di pellegrinaggio da tutti i santi luoghi li quali nel regno di Puglia sono e a casa loro se ne tornavano. Il quale, per passare malinconia, insieme con la sua donna e con alcun suoi famigliari e con suoi cani un dì a andare fra l’isola si mise; e non guari lontano al luogo dove era madama Beritola cominciarono i cani di Currado a seguire i due cavriuoli, li quali già grandicelli pascendo andavano: li quali cavriuoli, da’ cani cacciati, in nulla altra parte fuggirono che alla caverna dove era madama Beritola. La quale, questo vedendo, levata in piè e preso un bastone li cani mandò indietro: e quivi Currado e la sua donna, che i lor cani seguitavan, sopravenuti, vedendo costei che bruna e magra e pelosa divenuta era, si maravigliarono, e ella molto più di loro. Ma poi che a’ prieghi di lei ebbe Currado i suoi cani tirati indietro, dopo molti prieghi la piegarono a dire chi ella fosse e che quivi facesse; la quale pienamente ogni sua condizione e ogni suo accidente e il suo fiero proponimento loro aperse. Il che udendo Currado, che molto bene Arrighetto Capece conosciuto avea, di compassion pianse e con parole assai s’ingegnò di rimuoverla da proponimento sì fiero, offerendole di rimenarla a casa sua o di seco tenerla in quello onore che sua sorella, e stesse tanto che Idio più lieta fortuna le mandasse innanzi. Alle quali proferte non piegandosi la donna, Currado con lei lasciò la moglie e le disse che da mangiare quivi facesse venire e lei, che tutta era stracciata, d’alcuna delle sue robe rivestisse, e del tutto facesse che seco la ne menasse. La gentil donna con lei rimasa, avendo prima molto con madama Beritola pianto de’ suoi infortunii, fatti venir vestimenti e vivande, con la maggior fatica del mondo a prendergli e a mangiar la condusse: e ultimamente, dopo molti prieghi, affermando ella di mai non volere andare ove conosciuta fosse, la ’ndusse a doversene seco andare in Lunigiana insieme co’ due cavriuoli e con la cavriuola la quale in quel mezzo tempo era tornata e, non senza gran meraviglia della gentil donna, l’aveva fatta grandissima festa.

      E così venuto il buon tempo, madama Beritola con Currado e con la sua donna sopra il loro legno montò, e con loro insieme la cavriuola e i due cavriuoli, da’ quali, non sappiendosi per tutti il suo nome, ella fu Cavriuola dinominata; e con buon vento tosto infino nella foce della Magra n’andarono, dove smontati alle loro castella se ne salirono. Quivi appresso la donna di Currado madama Beritola, in abito vedovile, come una sua damigella, onesta e umile e obediente stette, sempre a’ suoi cavriuoli avendo amore e faccendogli nutricare.

      I corsari, li quali avevano a Ponzo preso il legno sopra il quale madama Beritola venuta era, lei lasciata sì come da lor non veduta, con tutta l’altra gente a Genova n’andarono; e quivi tra’ padroni della galea divisa la preda, toccò per avventura, tra l’altre cose, in sorte a un messer Guasparrin Doria la balia di madama Beritola e i due fanciulli con lei; il quale lei co’ fanciulli insieme a casa sua ne mandò per tenergli a guisa di servi ne’ servigi della casa. La balia, dolente oltre modo della perdita della sua donna e della misera fortuna nella quale sé e i due fanciulli caduti vedea, lungamente pianse. Ma poi che vide le lagrime niente giovare e sé esser serva con loro insieme, ancora che povera femina fosse, pure era savia e avveduta; per che, prima come poté il meglio riconfortatasi e appresso riguardando dove erano pervenuti, s’avisò che se i due fanciulli conosciuti fossono per avventura potrebbono di leggiere impedimento ricevere: e oltre a questo sperando che, quando che sia, si potrebbe mutar la fortuna e essi potrebbono, se vivi fossero, nel perduto stato tornare, pensò di non palesare a alcuna persona chi fossero, se tempo di ciò non vedesse; e a tutti diceva, che di ciò domandata l’avessero, che suoi figliuoli erano. E il maggiore non Giuffredi ma Giannotto di Procida nominava, al minore non curò di mutar nome; e con somma diligenzia mostrò a Giuffredi perché il nome cambiato gli avea e a qual pericolo egli potesse essere se conosciuto fosse, e questo non una volta ma molte e molto spesso gli ricordava: la qual cosa il fanciullo, che intendente era, secondo l’amaestramento della savia balia ottimamente faceva. Stettero adunque, e mal vestiti e peggio calzati, a ogni vil servigio adoperati, con la balia insieme pazientemente più anni i due garzoni in casa messer Guasparino.

      Ma Giannotto, già d’età di sedici anni, avendo più animo che a servo non s’apparteneva, sdegnando la viltà della servil condizione, salito sopra galee che in Alessandria andavano, dal servigio di messer Guasparino si partì e in più parti andò in niente potendosi avanzare. Alla fine, forse dopo tre o quatro anni appresso la partita fatta da messer Guasparrino, essendo bel giovane e grande della persona divenuto e avendo sentito il padre di lui, il quale morto credeva che fosse, essere ancora vivo ma in prigione e in captività per lo re Carlo guardato, quasi della fortuna disperato vagabundo andando, pervenne in Lunigiana: e quivi per ventura con Currado Malaspina si mise per famigliare, lui assai acconciamente e a grado servendo. E come che rade volte la sua madre, la quale con la donna di Currado era, vedesse, niuna volta la conobbe, né ella lui: tanto la età l’uno e l’altro, da quello che esser soleano quando ultimamente si videro, gli avea trasformati.

      Essendo adunque Giannotto al servigio di Currado, avvenne che una figliuola di Currado, il cui nome era Spina, rimasa vedova d’uno Niccolò da Grignano alla casa del padre tornò: la quale, essendo assai bella e piacevole e giovane di poco più di sedici anni, per ventura pose gli occhi addosso a Giannotto, e egli a lei, e ferventissimamente l’uno dell’altro s’innamorò. Il quale amore non fu lungamente senza effetto, e più mesi durò avanti che di ciò niuna persona s’accorgesse: per la qual cosa essi, troppo assicurati, cominciarono a tener maniera men discreta che a così fatte cose non si richiedea. E andando un giorno per un bosco bello e folto d’alberi la giovane insieme con Giannotto, lasciata tutta l’altra compagnia, entrarono innanzi; e parendo loro molta di via aver gli altri avanzati, in un luogo dilettevole e pien d’erba e di fiori e d’alberi chiuso ripostisi, a prendere amoroso piacere l’un dell’altro


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