Le figlie dei faraoni. Emilio Salgari

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Le figlie dei faraoni - Emilio Salgari


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di frequente la navigazione, che però, una volta aperti i canali, per un certo tempo si mantengono. Ora ho trovato quei passaggi chiusi e sai come? Quando ho fatto tagliare quelle masse vi ho trovato in mezzo dei pali affondati nel fango. Vuol dire dunque che sul fiume si vegliava e che si cercava d’impedirmi che io lo risalissi fino qui.»

      «E altro?»

      «Vi è qualche cosa ancora,» disse Ata, la cui fronte appariva pensierosa. «Sono tre giorni che navigo e tutte le notti ho scorto, dietro di me, un lume brillare nell’oscurità e dei fuochi scintillare al di sotto dei palmizi, ora su una riva ed ora sull’altra.»

      «Ciò mi preoccupa.»

      «Ed io non meno di te. Qualcuno deve avere informato che tu non sei…»

      Ounis con un rapido gesto gli mise una mano sulle labbra, dicendogli con voce imperiosa:»

      «Taci! Lo voglio!»

      «Perdonami,» disse Ata, a bassa voce.

      «Io non sono che un sacerdote per te, come per tutti.»

      «È vero, dimenticavo il giuramento.»

      «Continua.»

      «Certo si sospetta alla corte che Mirinri non sia morto.»

      «Può darsi. Hai avvertito i nostri amici?»

      «Tutti sanno a quest’ora che lui è pronto alla riscossa. Quando noi saremo a Menfi li troveremo tutti riuniti nelle tombe dei coccodrilli e là sarà reso l’omaggio dovuto al nuovo Figlio del Sole, e che…»

      Un urto leggero, che fece oscillare la barca, lo interruppe. La discesa del fiume si era arrestata.

      Ata aggrottatò la fronte.

      «Ci hanno chiuso il passaggio,» mormorò. «Me l’aspettavo; eppure stamane le erbe non erano così fitte da impedire al mio veliero di risalire il fiume. Che le spie del Faraone siano già giunte qui?»

      «Le piante crescono presto sul Nilo,» disse Ounis. «Bastano ventiquattro ore per ostruire il fiume.»

      Ata crollò il capo e si spinse verso la prora, dove gli etiopi si erano raccolti per provare, coi loro lunghi remi, la resistenza che opponeva quella barra erbosa.

      Il Nilo va soggetto a delle ostruzioni improvvise, che di quando in quando intercettano completamente la navigazione, obbligando gli equipaggi dei piccoli velieri che lo salgono e lo discendono a delle dure fatiche per aprirsi un passaggio.

      Anticamente, quando i papiri e gli ambath erano ben più numerosi d’oggidì e raggiungevano delle dimensioni straordinarie, la navigazione di quel fiume immenso subiva dei ristagni assai più considerevoli. Quelle piante acquatiche, conosciute oggidì col nome di sett o meglio di sudd, prendevano tali proporzioni da impedire qualsiasi passaggio alle navi che dovevano, per scopi commerciali, spingersi verso l’alto Nilo.

      Già quasi tutti i fiumi africani vanno soggetti a simili ingombri, perfino lo Zambese; quello che bagna l’Egitto è afflitto da una massa maggiore di quelle cattive erbe, che la corrente, anche durante le piene, non riesce a sfondare.

      Anche oggidì, di quando in quando, il corso del Nilo ed i suoi affluenti, quantunque il papiro sia quasi scomparso, vengono invasi da quella vegetazione acquatica, la quale cresce con rapidità prodigiosa formando delle masse enormi così compatte, da obbligare il governo egiziano a mandare delle migliaia d’uomini per aprire dei canali che difficilmente poi rimangono aperti.

      Fra il 1870 ed il 1873 Samuele Baker, il famoso esploratore che conduceva una spedizione armata nell’Alto Egitto per reprimere la schiavitù, fu fermato per lungo tempo dal sett che aveva ostruito il Bahr-el-Djebet, in modo da non potergli permettere di giungere a Gondokoro.

      Anche nel 1898 le cannoniere inglesi, che operavano contro i madhisti, si videro costrette ad aprirsi un canale attraverso la massa erbosa, la quale era così fitta da sostenere senza alcun pericolo gli uomini che lavoravano. C’era però un altro pericolo, poiché di quando in quando fra quelle piante balzavano fuori dei coccodrilli e le loro formidabili mascelle si serravano attorno alle gambe dei marinai e dei soldati.

      Molti anni prima fu il Nilo Bianco che si coprì di sett, eppure quello splendido corso d’acqua ha una larghezza di mezzo chilometro ed una profondità di cinque metri e da quell’epoca le erbe non hanno cessato di aumentare, costringendo il governo egiziano ad un continuo e costoso ripulimento del letto ed all’apertura dei canali, onde mantenere le sue relazioni colle provincie equatoriali.

      Tagliare quelle erbe non è difficile, perché non presentano una grande resistenza; il più è mantenere quelle aperture libere, perché tutta la regione intorno al fiume non è altro che una immensa palude, che rappresenta il letto di qualche antico lago nel quale l’acqua si espande su larghi spazii e si evapora in gran parte senza tregua.

      Ata, dopo d’aver osservato attentamente la massa erbosa che impediva quel passo, che aveva trovato libero il mattino, chiamò due dei suoi battellieri, dicendo loro:

      «Guardate se hanno piantato degli ostacoli nel letto del fiume.»

      I due etiopi s’armarono con delle pesanti ascie di bronzo, potendo darsi il caso che fra quelle masse vegetali si nascondesse qualche coccodrillo e si calarono sul sett che era formato da un denso strato di ambath e di foglie di loto, strettamente amalgamate.

      «Vi sostiene?» chiese Ata, che stava curvo sul bordo.

      «Sì, padrone,» risposero i due battellieri.

      «Non scorgete nulla?»

      «Aspetta.»

      Affondarono le mani nella massa, frugando qua e là fra la moltitudine di radici che formavano un vero graticolato, e ben presto un grido di sorpresa sfuggì dalle loro labbra.

      «Avevi ragione, padrone,» disse uno dei due. «Il canale è stato chiuso appositamente per impedirci il ritorno.»

      «Che cosa hanno messo?» chiese Ata.

      «Hanno piantato nel letto del fiume dei pali e hanno fatto deviare una massa considerevole di erbe, dopo d’averle tagliate dal grande banco.»

      «Giù tutti e aprite il passo,» comandò Ata, volgendosi verso gli altri etiopi che stavano dietro di lui, in attesa dei suoi ordini. «Non facciamoci sorprendere immobilizzati. Devono averci preparato qualche agguato. Fortunatamente il fiume è largo e le rive sono lontane.»

      Mentre i battellieri scendevano per sbarazzare quel tratto di fiume che dei nemici misteriosi avevano appositamente ostruito, comparve sulla tolda Mirinri.

      Il giovane non indossava più la lunga veste bianca che non si addiceva ad una persona d’alto grado, né aveva i piedi nudi.

      Portava invece il costume nazionale, così semplice, eppure così pittoresco, degli antichi egizi e che era rappresentato dalla kalasiris, una veste leggera, così trasparente da lasciar intravvedere le forme, a righe bianche ed azzurre, che avvolgeva il corpo a partire dal collo o dalla cavità del petto per cadere fino ai piedi e con un buco per lasciar passare la testa.

      Vi aveva aggiunto, come esigeva il costume di quell’epoca, nei personaggi cospicui, anche per le donne d’origine nobile, un collare variopinto di tela inamidata, quasi circolare, tutto chiuso, adorno di cordoni e di catene a cui erano infilate delle perline di vetro e simboli religiosi di pietre multicolori.

      Ai piedi portava delle calzature a maglia e dei sandali, lusso permesso solamente ai ricchi, formati da pellicole di papiro sovrapposte a più strati, colla punta in forma di becco, come i nostri pattini da ghiaccio, fissati con un largo laccio guernito di piastrine d’oro e trattenuti da una correggia che passava fra il pollice e l’indice.

      «Che cosa c’è dunque?» chiese, vedendo tutti gli etiopi sul sett.

      «Brutte nuove,» rispose Ounis. «Si sospetta di noi.»

      «Così presto?»

      «Questa ne è la prova. Il canale non deve essere stato chiuso per capriccio. Per compiere un simile lavoro in poche ore devono essere giunte qui molte barche, montate da parecchie centinaia d’uomini.»

      «Eppure tu hai preso per tanti


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