Le figlie dei faraoni. Emilio Salgari

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Le figlie dei faraoni - Emilio Salgari


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si è finalmente risvegliato.»

      «Alla piramide, Ounis» ripetè il giovane, il cui entusiasmo non si era ancora calmato. «Andiamo ad interrogare il fiore d’Osiride.»

      «Lo vedrai dischiudere le sue corolle millenarie,» rispose il sacerdote.

      La piramide, come abbiamo detto, che avrebbe dovuto servire di tomba alla dinastia iniziata da Pepi, non era lontana.

      La sua mole imponente si ergeva appena ad un mezzo miglio dalle due gigantesche statue, lanciando la sua cima a centocinquanta metri.

      Tutte le piramidi, fatte innalzare dalle diverse dinastie che regnarono in Egitto migliaia d’anni prima della nascita di Gesù Cristo, avevano proporzioni colossali.

      Molte furono distrutte, per edificare coi loro materiali Tebe ed altre città sorte dopo la gloriosa Menfi, tuttavia ne sussistono anche oggidì parecchie e le più celebri e le più visitate sono quelle di Cheope, di Chefrèn e di Micerino, le quali sono d’altronde le più gigantesche che si conoscano, coprendo suppergiù ciascuna cinque ettari di terreno ed avendo un’altezza che varia fra i centoquaranta ed i centoquarantasei metri.

      Si calcola che per costruire quelle tombe, siano occorsi per ciascuna 250.000 metri cubi di materiali!

      Quali somme poi abbiano costato e quante migliaia e migliaia di operai siano stati necessari per innalzarle, sarebbe impossibile dirlo. Si sa solo, consultando gli antichi papiri, che per erigere quella di Cheope non si spesero meno di quattro milioni di talenti egiziani, pari a più di dieci milioni di lire in solo aglio, prezzemolo e cipolle, vegetali che costituivano però il principale nutrimento di quegli infaticabili lavoratori reclutati, sempre per maggior economia, fra i prigionieri di guerra.

      La piramide fatta innalzare da Teti, come abbiamo detto, non poteva rivaleggiare con quelle tre sopra menzionate; tuttavia era ancora così enorme da far arrossire – se fosse possibile – i più grandi edifizi moderni, anche i palazzoni a venti piani che costruiscono oggidì i nord-americani.

      Una gradinata, di nove metri per lato, misura tenuta per tutte le piramidi, conduceva sulla cima, ove doveva trovarsi, al pari che nelle altre, una piccola piattaforma.

      Ounis, che doveva aver visitato ancora, in altri tempi, l’enorme sepolcreto, mosse sollecito verso due colossali sfingi, che pareva fossero state collocate a guardia d’una porta di bronzo, che andava restringendosi verso lo stipite come tutte quelle costruite dagli antichi egizi.

      La esaminò per qualche istante, come se volesse accertarsi che la serratura non fosse stata guastata, poi trasse di sotto la lunga veste una chiave di forma strana, che rassomigliava ad un serpente aggrovigliato e introdusse una estremità in un buco intagliato, in modo da sembrare una foglia di loto.

      «Come possiedi tu quella chiave?» chiese Mirinri, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

      «Me l’ha data tuo padre prima di morire» rispose laconicamente il sacerdote. «Se tu fossi per caso morto dove vorresti che ti avessi sepolto? Un Faraone dormire fra le sabbie?»

      «Ma mio padre non riposa lì dentro.»

      «Quando tu avrai conquistato il trono che ti spetta, anche lui dormirà, fra queste muraglie ciclopiche, il sonno eterno.»

      Spinse la massiccia porta di bronzo, accese una piccola lampada d’argilla, che aveva portato seco, adoperando due pietre nere che percuotendole l’una con l’altra sprigionavano fasci di scintille vivissime, poi, volgendosi verso il giovane, gli disse:

      «A te spetta il diritto di entrare per primo, giacché tuo padre più non esiste.»

      Con un’emozione visibile Mirinri varcò la soglia e che entrò nell’immenso sepolcreto, destinato ad accogliere tutte le salme della sua dinastia.

      Anche là dentro, come già nell’immensa caverna funeraria dove trovavasi il tesoro, regnava un tanfo di muffito e d’umido, tuttavia l’aria, che penetrava forse per mille fessure invisibili, era più respirabile, sicchè i due uomini poterono avanzarsi liberamente.

      Nelle pareti massiccie vi erano molti vani di forma quadrata, destinati a ricevere le bare, con sotto una tavola di marmo nero per ricevere le offerte destinate al morto, onde non dovesse soffrire la fame durante la traversata dell’Amenti, per raggiungere il regno d’Osiride o la «regione nascosta», il luogo di delizie.

      Non erano quei vani, che d’altronde erano tutti vuoti, che interessavano Ounis e tanto meno Mirinri. Il sacerdote cercava ansiosamente un masso enorme, che doveva trovarsi nel centro della piramide e che celava il famoso fiore d’Osiride.

      Essendo la luce della lampadina troppo fioca e lo spazio immenso e tenebroso, dovette percorrere parecchie centinaia di passi prima di scoprirlo.

      «Eccolo,» disse finalmente.

      Un gran dado di pietra bianca sormontato da una statua rappresentante Toth, il dio ibis, era comparso nel cerchio proiettato dalla luce.

      Ounis s’accostò e rimosse colla mano un cumulo di vegetali che copriva la superficie, dei fiori di loto bianco ed azzurro, dei crisantemi, dei mazzi di trifoglio, dei sedani e dei melloni d’acqua seccati, che conservavano tuttavia ancora il loro color verde e dopo d’aver frugato entro una cavità trasse una piccola pianta disseccata, mostrandola trionfalmente al giovane.

      Quella pianta meravigliosa, che doveva migliaia d’anni dopo far stupire i botanici europei ed americani, che la chiamarono il fiore della risurrezione e che fu scoperta da un beduino nel seno d’una principessa faraonica e donata dal possessore al dottor Deck nel 1848, era quella che gli antichi Egizi chiamavano il fiore d’Osiride.

      Era una pianticella magra, esile, con dei bottoncini ingialliti dal tempo e ormai completamente disseccati.

      «È proprio quella che il grande Osiride lasciò ai suoi successori?» chiese Mirinri, guardandola cogli occhi luccicanti.

      «La stessa,» rispose Ounis, dopo averla osservata attentamente. «La riconosco benissimo perché io l’ho portata qui assieme a tuo padre.»

      «E tu credi che riviverà?»

      «Sì, se tu sei un vero Faraone. Se la statua di Memnone ha suonato in tua presenza, non ho ora alcun dubbio che questi due bottoncini schiuderanno le loro corolle.»

      «Da quanti anni è così disseccata?»

      «Chi potrebbe dirlo? Da migliaia e migliaia di certo, ma molte volte è risuscitata e certo per volere del grande Osiride. A te, prendila e versa su questi bottoncini due goccie.»

      Gliela porse, unitamente ad una piccola fiala di vetro che conteneva un po’ d’acqua.

      Mirinri la fissò per parecchi istanti. Il suo cuore tremava, come quando aspettava ansiosamente il suono della colossale statua. Se quell’ultima prova fosse fallita?

      «Bagnala,» disse Ounis, vedendo che il giovane esitava. «Sono certo che fra poco io renderò a te l’omaggio che il popolo egiziano deve ai Figli del Sole.»

      Mirinri versò due goccie d’acqua sui due bottoncini e subito vide, con immensa meraviglia, quella pianta, da secoli e secoli morta, dapprima fremere, poi agitarsi, raddrizzare i suoi tessuti, i bottoncini gonfiarsi ed arrotondarsi, quindi svolgere i loro leggeri petali all’ingiro, intorno ad un punto centrale di color giallo.()

      La pianta meravigliosa di Osiride era risuscitata!

      «Lasciala morire,» disse Ounis, vedendo Mirinri agitarla, come se fosse improvvisamente impazzito. «Taci e guarda!»

      I due fiori che somigliavano a due splendide margherite, mantennero per qualche minuto i loro petali aperti e tesi, scoprendo il loro seno ringiovanito come per opera magica, cosparso di piccoli granelli, poi le loro tinte iridiscenti cominciarono a scolorirsi, gli steli si curvarono, le foglioline si ripiegarono su se stesse e tutto si appassì.

      Il grido, che Mirinri aveva fino allora trattenuto, gli uscì formidabile dal petto:

      «Sono un Faraone! Lode al grande Osiride! La potenza, la grandezza, la gloria! Ah! È troppo!»

      Ounis prese il fiore e lo depose nuovamente nell’incavatura del masso, poi s’inginocchiò dinanzi a Mirinri


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