Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2. Giovanni Boccaccio

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - Giovanni Boccaccio


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do; e ricordoti che io ti do piú che dato non tʼha alcun altro che qui sia; percioché non ce nʼè alcuno che tanto donato tʼabbia, che alcuna cosa rimasa non gli sia, ma a me, che me tʼho dato, cosa alcuna non è rimasa. – Al quale Socrate umilmente rispose: – Eschilo, il tuo dono mʼè molto piú caro che alcuno altro che da costoro mi sia stato dato, e la ragione è questa: io non ho alcuna cosa la quale io possa assai degna donare a costoro che a me hanno donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del dono che fatto mʼhai, e quello sono io medesimo; e cosí io me ti do; e perciò quanto tu vuogli che io abbia te per mio, tanto faʼ che tu abbi me per tuo. – Fu di sua natura pazientissimo, e con egual animo portò le cose liete e le avverse, intanto che molti voglion dire non essergli stato mai veduto piú che un viso. Il che maravigliosamente mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dellʼuna delle due mogli che avea, chiamata Santippe: la quale, senza interporre, il dí e la notte egualmente, con perturbazioni e con romori era da lei stimolato; la qual tanto piú nella sua ira sʼaccendeva, quanto lui piú paziente vedeva. Ed essendo alcuna volta stato addomandato da Alcibiade, nobilissimo giovane dʼAtene, secondo che scrive Aula Gellio in libro undecimo Noctium Atticarum, perché egli non la mandava via, conciofossecosaché per la legge lecito gli fosse, rispose che per la continuazione dellʼingiurie dimestiche fattegli da Santippe egli aveva apparato a sofferire con non turbato animo le disoneste cose, le quali egli vedeva e udiva di fuori. Oltre a questo, tenendosi Santippe ingiuriata da lui, un dí, preso luogo e tempo, dalla finestra della casa gli versò sopra la testa un vaso dʼacqua putrida e brutta; il quale sapendo donde venuto era, rasciuttasi la testa, nullʼaltra cosa disse: – Io sapeva bene che dopo tanti tuoni doveva piovere. —

      Furono le sue risposte di mirabile sentimento. Era in Atene un giovane uomo dipintore, assai conosciuto, il quale subitamente divenne medico; il che detto a Socrate, disse: – Questi può esser savio uomo dʼaver lasciata lʼarte, i difetti della quale sempre stanno dinanzi agli occhi degli uomini, e presa quella li cui errori la terra ricuopre. – Era, oltre a ciò, usato di prender piacere di vedere le due sue mogli per lui talvolta non solamente gridare, ma azzuffarsi insieme, e massimamente sé considerando, il quale era del corpo piccolo, e avea il naso camuso, le spalle pelose e le gambe storte, e appresso la viltá dellʼanimo loro; e il farle venire a zuffa insieme era qualora egli volea, sol che un poco dʼamore piú allʼuna che allʼaltra mostrasse; di che esse una volta accortesi, e rivoltesi sopra lui, fieramente il batterono, e lui fuggente seguirono, tanto che la loro indegnazione sfogarono. Fu in costumi sopra ogni altro venerabile uomo, in tanto che solamente nel riguardarlo prendevano maraviglioso frutto gli uditori suoi, sí come Seneca nella sesta pistola a Lucillo, dicendo: «Platone e Aristotile, e lʼaltra turba tutta deʼ savi uomini, piú daʼ costumi di Socrate trassero di sapienza che dalle sue parole». Fu nel cibo e nel bere temperatissimo, intanto che di lui si legge che, essendo una mortale e universale pestilenza in Atene, né mai si partí, né mai infermò, né parte dʼalcuna infermitá sentí. Sostenne con grandissimo animo la povertá, intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse, ma ancora i doni daʼ grandi uomini offertigli ricusò. Ed essendo giá vecchio, volle apprendere a sonare gli stromenti musici di corda: di che alcuno maravigliandosi gli disse: – Maestro, che è questo? aver veduti gli alti effetti della natura, e ora discendere alle menome cose musicali? – Al quale egli dimostrò sé estimare esser meglio dʼavere tardi apparata quella arte che morire senza averla saputa. Né in alcuna etá poté sofferire dʼessere ozioso; percioché, secondo scrive Tullio nel libro De senectute, egli era giá dʼetá di novantaquattro anni, quando egli scrisse il libro, il quale egli appellò Panaletico.

      Una cosa ebbe questo singulare uomo, la quale a certi ateniesi fu grave, ed ultimamente cagione della morte sua: egli non poté mai essere indotto ad avere in alcuna reverenza glʼiddii li quali gli ateniesi adoravano, affermando un cane, un asino o qualunque altro piú vile animale esser degno di molta maggior venerazione che glʼiddii degli ateniesi. E la ragione, che di ciò assegnava, era che gli animali erano opera della natura, glʼiddii degli ateniesi erano opera delle mani degli uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti trenta uomini in Atene a dover riformare lo stato della cittá e servarlo, ve ne furono alcuni, li quali, forse da alcuna altra occulta cagion mossi, sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse li loro iddii essere da onorare e che Atene dalla lor deitá e custodia servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo giá dʼetá di novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto da un mese. Alla fine, vedendo coloro, che tener vel facevano, non potersi a ciò lʼanimo suo inducere, gli mandarono in un nappo un beveraggio avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi mostratigli da Lisia alla sua salute, amando piú di finire la vita che di diminuire la sua gravitá, con grandissimo animo, e con quel viso il quale sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo Santippe, e dolendosi chʼegli era fatto morire a torto, fieramente la riprese dicendo: – Dunque vorresti tu, stolta femmina, che io fossi morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto o avvenga che io giustamente condannato sia. – E, bevuto la venenata composizione, molte cose aʼ suoi amici, che dʼintorno gli erano, parlò dellʼeternitá dellʼanima. Ma, appressandosi giá lʼora della morte, per la forza del veleno che al cuore sʼavvicinava, il dimandò uno deʼ suoi discepoli, chiamato Trifone, quello che esso voleva che del suo corpo si facesse, poiché morto fosse. Per che Socrate, rivolto agli altri, disse: – Lungamente mʼha invano ascoltato Trifone. – E poi disse: – Se, poi che lʼanima mia sará dal corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia ci trovate, fatene quello che da fare estimerete; ma cosí vi dico, che, partendomi io, alcun di voi non mi potrá seguire. – Né guari stette che egli morí. In onor del quale, secondo che scrive Tertullio, fecero poi gli ateniesi in memoria e in sembianza di lui fare una statua dʼoro, e quella fecero porre ad un tempio. Nacque Socrate, secondo che nelle Istorie scolastiche si legge, al tempo di Serse, re di Persia, e morí regnante il re Assuero.

      «E Platone». Platone fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu figliuolo dʼAristone, uomo di chiara fama, e di Perissione sua moglie; e, secondo che alcuni affermano, esso fu deʼ discendenti del chiaro legnaggio di Solone, il quale ornò di santissime leggi la cittá di Atene. E volendo Speusippo, figliuolo della sorella, e che dopo la sua morte le scuole sue ritenne insieme con Clearco e con Anassalide, stati suoi uditori, nobilitare la sua origine, sí come essi nel secondo libro della Filosofia scrivono, finsero Perissione, madre di lui, essere stata oppressa da una sembianza dʼ Apolline; volendo che per questo sʼintendesse, lui per opera del padre, il quale gli antichi estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza, la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogni altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu tanta dolcezza e tanta soavitá nella sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che umana, parlando. La qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che a quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente, essendo egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono trovate api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti che in uno loro fiaro, gli portavano mèle, senza dʼalcuna cosa offenderlo. Secondariamente, quella notte che precedente fu al dí che Aristone lui giovanetto menò a Socrate, accioché della sua dottrina lʼammaestrasse, parve nel sonno a Socrate vedere di cielo discendere un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di quello che da esso Socrate gli era dato. Per che, come Socrate vide Platone il dí seguente, cosí estimò lui esser quel cigno che nel sonno veduto avea. E il cigno, secondo che questi fisiologi scrivono, è uccello, il quale soavissimamente canta: per la qual dolcezza di canto assai bene si può comprendere essere stata dimostrata la dolcezza della sua futura eloquenza.

      Fu costui nominato Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla ampiezza del petto suo. Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate, secondo che Agostino racconta nel quarto della Cittá di Dio, navicò in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si poteva mostrare. E quindi, tirato dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in Italia, da quegli dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu fatta, [ed è ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che aʼ tempi chʼeʼ romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte cose la sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a ciò, in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla concupiscenza della carne stimolato,


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