Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 2. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 2 - Edward Gibbon


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rinforzi, benchè replicati dai successivi Imperatori, rendere all'importante frontiera della Gallia e dell'Illirico l'antico suo nativo vigore.

      Di tutti i Barbari, che abbandonarono i nuovi loro stabilimenti, e disturbarono la pubblica tranquillità, un piccolissimo numero ritornò al suo nativo paese. Poterono per breve tempo vagare armati per l'Impero; ma furono al fine sicuramente distrutti dalla potenza di un Imperator bellicoso. La fortunata temerità di una truppa di Franchi fu accompagnata da conseguenze sì memorabili da non doversi passare in silenzio. Probo gli avea stabiliti sulle coste del Ponto, colla mira di rinforzare quella frontiera contro lo irruzioni degli Alani. Una flotta, che fissa stava nei porti dell'Eusino, cadde nelle mani dei Franchi; ed essi risolverono di cercare una strada per mari incogniti dalla foce del Fasi a quella del Reno. Fuggirono essi facilmente a traverso il Bosforo e l'Ellesponto, ed incrociando lungo il Mediterraneo, la loro sete di vendetta e di rapina con frequenti sbarchi su i lidi dell'Asia, della Grecia o dell'Affrica, che non sospettavano una incursione. La ricca città di Siracusa, nel cui porto erano state una volta calate a fondo le flotte di Atene e Cartagine, fu saccheggiata da un pugno di Barbari, che trucidarono la maggior parte de' tremanti abitatori. Dalle isole della Sicilia si avanzarono i Franchi alle Colonne di Ercole, e fidandosi all'Oceano costeggiarono la Spagna e la Gallia, e dirigendo trionfanti il loro corso pel canale Britannico, terminarono finalmente il sorprendente loro viaggio, approdando sicuri ai lidi della Batavia o della Frisia146. L'esempio del loro felice successo, insegnando ai loro concittadini a concepire i vantaggi, e a disprezzare i pericoli del mare, additò al loro spirito intraprendente una nuova strada alla ricchezza e alla gloria.

      Non ostante la vigilanza e l'attività di Probo, era quasi impossibile ch'egli potesse nel tempo stesso contenere nell'ubbidienza ogni parte del suo tanto esteso dominio. I Barbari, che ruppero le loro catene, presa aveano la favorevole occasione di una guerra domestica. Quando mosse l'Imperatore al soccorso della Gallia, affidò a Saturnino il comando dell'Oriente. Questo Generale, uomo di merito e di esperienza, fu indotto a ribellarsi dalla lontananza del suo Sovrano, dalla leggierezza degli Alessandrini, dalle premurose istanze degli amici, e dai suoi propri timori; ma dal primo momento della sua elevazione non mantenne mai alcuna speranza di conservarsi l'Impero, oppure la vita. «Ah!» diss'egli, «la Repubblica ha perduto un util suddito, e la temerità di un momento ha distrutto i servigi di molt'anni. Voi non conoscete (egli continuò) le angustie del sovrano potere; sta sempre sospesa sul nostro capo una spada; paventiamo le stesse nostre guardie, e diffidiamo dei nostri compagni. Non è più in nostro arbitrio l'operare o stare in riposo, nè vi è età, carattere, o condotta veruna, che ci metta al coperto della censura dell'invidia. Innalzandomi in tal guisa al trono, condannato mi avete a una vita angustiosa, e ad un fine immaturo. L'unica consolazione che mi resta, è la sicurezza che non caderò solo147.» Ma come la prima parte della sua predizione fu verificata dalla vittoria, così fu la seconda smentita dalla clemenza di Probo. Questo buon Principe tentò persino di salvare l'infelice Saturnino dal furor dei soldati. Avea egli più di una volta pregato l'usurpatore istesso a riporre qualche fiducia nella clemenza di un Sovrano, il quale tanto stimava il carattere di lui, che avea punito, qual maligno delatore, il primo che riferì l'improbabil nuova della sua ribellione148. Avrebbe forse Saturnino accettata la generosa offerta, se non fosse stato ritenuto dall'ostinata diffidenza dei suoi aderenti. Il loro delitto era più grave, e le loro speranze più ardenti di quelle dello sperimentato lor condottiere.

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      Era appena nell'Oriente estinta la ribellione di Saturnino, che si suscitarono nuove turbolenze nell'Occidente, per la sollevazione di Bonoso e di Proculo nella Gallia. Il maggior merito di questi due Uffiziali era la prodezza dell'uno nelle battaglie di Bacco, dell'altro in quelle di Venere149; non mancava però nè l'uno nè l'altro di coraggio e di capacità, ed ambi sostennero con onore l'augusto carattere che il timor del castigo gli aveva impegnati ad assumere, finchè cederono in ultimo al genio superiore di Probo. Egli usò della vittoria con la solita sua moderazione, e risparmiò i beni non men che le vite delle innocenti loro famiglie150.

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      Aveano ormai le armi di Probo oppressi tutti gli stranieri e domestici nemici dello Stato. Il suo dolce, ma fermo governo assicurava il ristabilimento della pubblica tranquillità; nè vi era rimasto nelle province un barbaro nemico, un tiranno o un masnadiere pur anco, che risvegliasse la memoria dei passati disordini. Tempo era che l'Imperatore rivedesse Roma, e celebrasse la propria sua gloria e l'universale felicità. Il trionfo, dovuto al valore di Probo, fu regolato con una magnificenza conveniente alla sua fortuna, ed il popolo, che avea sì di recente ammirati i trofei di Aureliano, rimase con eguale piacere attonito alla vista di quelli dell'Eroe successore151. Non possiamo in questa occasione tralasciare di riferire il coraggio di circa ottanta gladiatori, riservati con quasi seicento altri per l'inumano spettacolo dell'anfiteatro. Sdegnando essi di spargere il sangue per dilettare la moltitudine, uccisero i loro custodi, ruppero la loro prigione, ed empirono le contrade di Roma di sangue e di confusione. Dopo una ostinata resistenza furono superati, e tagliati a pezzi dalle truppe regolari; ma ottennero almeno una morte onorevole, e la soddisfazione di una giusta vendetta152.

      La militar disciplina, che regnava nei campi di Probo, era meno crudele di quella di Aureliano, ma non men rigida ed esatta. Il secondo puniva le irregolarità dei soldati con inflessibile severità; il primo le preveniva, occupando le legioni in continue ed utili fatiche. Quando Probo comandava nell'Egitto, fece molte opere considerabili per lo splendore e per l'utile di quel ricco paese. La navigazione del Nilo, così importante a Roma medesima, fu migliorata; e tempj, ponti, portici e palazzi furono costruiti dalle mani de' soldati, che servivano a vicenda come architetti, come ingegneri e come operai153. Vien riferito di Annibale, che per preservare le sue truppe dalle pericolose tentazioni dell'ozio, le avea obbligate a fare vaste piantazioni di ulivi lungo la costa dell'Affrica154. Per un simil principio, Probo esercitò le sue legioni a coprire di ricche vigne le colline della Gallia e della Pannonia, e ci vengono descritti due considerabili terreni, che furono interamente lavorati o piantati dalle braccia dei soldati155. Uno di questi, conosciuto sotto il nome di Monte Almo, era situato vicino a Sirmio, paese nativo di Probo, per cui egli sempre conservò un affetto parziale, e la cui gratitudine procurò d'assicurarsi, convertendo in terreno lavorabile un vasto ed insalubre tratto di suol paludoso. Un esercito così impiegato componeva forse la più utile e la più coraggiosa porzione dei sudditi Romani.

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      Ma nel proseguimento di un disegno favorito i migliori degli uomini, soddisfatti della rettitudine delle loro intenzioni, sono soggetti ad obbliare i limiti della moderazione; e Probo istesso non consultò abbastanza la pazienza e la disposizione dei feroci suoi legionari156. Sembra che solamente una vita piacevole ed oziosa possa compensare i pericoli della professione militare; ma se i doveri del soldato sono continuamente aggravati dalle fatiche dell'agricoltore, egli caderà finalmente sotto l'intollerabil peso, o lo scuoterà con isdegno. Si pretende che l'imprudenza di Probo provocasse lo scontento delle sue truppe. Più attento agl'interessi del Genere Umano che a quelli dell'esercito, egli manifestò la vana speranza di presto abolire, collo stabilimento della pace universale, la necessità delle truppe permanenti e mercenarie157. Questa poco misurata espressione gli divenne fatale. In uno dei più caldi giorni di estate, mentre egli severamente affrettava l'insalubre lavoro di seccare le paludi di Sirmio, i soldati, impazienti della fatica, gettaron via subitamente i loro strumenti, afferraron l'armi, e proruppero in una furiosa sollevazione. L'Imperatore, conoscendo il suo pericolo, si rifuggì in un'alta torre, eretta a fine di osservare il progresso di quel lavoro158. Fu la torre in un momento forzata, e mille spade in un punto immerse furono in seno all'infelice Probo. Appena saziato, cessò il furor delle truppe. Deplorarono allora la funesta loro temerità,


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<p>146</p>

Panegir. antic. V. 18. Zosimo, l. I. p. 66.

<p>147</p>

Vopisco nella Stor. Aug. p. 245, 246. L'infelice Oratore avea studiata la retorica a Cartagine, e perciò era probabilmente Mauro (Zosimo l. I, p. 60) anzichè Gallo, come lo dice Vopisco.

<p>148</p>

Zonara, l. XII. p. 638.

<p>149</p>

Si racconta un esempio assai sorprendente della prodezza di Proculo. Egli avea preso cento vergini Sarmate. Il resto della storia egli stesso lo riferisca nella sua propria lingua; «Ex his una nocte decem inivi: omnes tamen, quod in me erat, mulieres intra dies quindecim reddidi». Vopisco nella Stor. Aug. p. 247.

<p>150</p>

Proculo, ch'era nativo di Albenga nella riviera di Genova, armò duemila dei suoi schiavi. Grandi erano la sue ricchezze, ma acquistate per mezzo di ladronecci. Fu poi un detto della sua famiglia, nec latrones esse, nec principes sibi placere. Vopisco Stor. Aug. p. 247.

<p>151</p>

Stor. Aug. p. 240.

<p>152</p>

Zosimo l. I. p. 66.

<p>153</p>

Stor. Aug. p. 236.

<p>154</p>

Aurelio Vittore in Probo; ma la politica di Annibale, non ricordata da alcun altro più antico Scrittore, è inconciliabile con la storia della sua vita. Egli lasciò l'Affrica in età di nove anni, vi ritornò di quarantacinque ed immediatamente perdè la sua armata nella decisiva battaglia di Zama: Livio, XXX. 37.

<p>155</p>

Stor. Aug. p. 240. Eutrop. IX, 17. Aurelio Vittore in Probo. Vittore Juniore. Egli rivocò la proibizione di Domiziano, ed accordò ai Galli, ai Brettoni, ed ai Pannonj la general permissione di piantar viti.

<p>156</p>

Giuliano fa una severa, e veramente eccessiva censura del rigore di Probo, il quale, come egli pensa, meritò quasi il suo destino.

<p>157</p>

Vopisco nella Stor. Aug. p. 24. Egli profonde su questa vana speranza un lungo squarcio d'insulsa eloquenza.

<p>158</p>

Turris ferrata. Sembra che fosse una torre mobile e fasciata di ferro.