Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 6. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 6 - Edward Gibbon


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dice, che la folle curiosità d'Elagabalo tentò di scuoprire dalla quantità delle tele di ragno il numero degli abitanti di Roma. Non sarebbe stato indegno dell'attenzione dei più savi Principi un metodo più ragionevole di venirne in chiaro, che avrebbe facilmente potuto sciogliere una questione tanto importante per il governo Romano, e sì interessante pei successivi secoli. Si registravano regolarmente le nascite e le morti dei cittadini; e se qualche antico scrittore si fosse preso la cura di conservarcene l'annual somma, o il numero comune, potremmo adesso far qualche probabile calcolo, che distruggerebbe forse le stravaganti asserzioni dei critici, e confermerebbe le modeste e verisimili congetture dei filosofi248. Le più diligenti ricerche ci hanno procurato soltanto le seguenti circostanze, che per quanto leggiere ed imperfette siano, possono in qualche modo servire ad illustrar la questione della popolazione dell'antica Roma. I. Allorchè la capital dell'Impero fu assediata dai Goti, il circondario delle mura fu esattamente misurato dal matematico Ammonio, che lo trovò di miglia ventuno249. Ci dobbium rammentare, che la forma della città era quasi d'un cerchio, figura geometrica, la quale si sa che contiene il maggiore spazio dentro qualunque data circonferenza. II. L'architetto Vitruvio, che fiorì nel secolo d'Augusto, e la testimonianza del quale in quest'occasione merita speciale autorità e peso, osserva che le innumerabili abitazioni del Popolo Romano si sarebbero estese molto al di là degli angusti limiti della città; e che la mancanza di terreno, che era probabilmente ristretto per ogni parte dai giardini e dalle ville, suggerì la comune, sebben inconveniente pratica di alzar le case ad una considerabile altezza250. Ma la sublimità di queste fabbriche, le quali spesso erano fatte in fretta e con materiali insufficienti, era causa di frequente e fatale disgrazie, e fu più volte ordinato da Augusto, come pure da Nerone, che l'altezza degli edifizi privati dentro le mura di Roma non eccedesse la misura di settanta piedi sopra terra251. III. Giovenale252 sembra che per propria esperienza deplori le angustie dei cittadini più poveri, a' quali dà il salutare avviso di abbandonare senza dilazione il fumo di Roma; mentre potevano procurarsi nelle piccole città d'Italia una buona e comoda abitazione per il medesimo prezzo, che annualmente pagavano per un oscuro e miserabile alloggio. Era dunque la pigione delle case eccessivamente cara: i ricchi acquistavano ad enorme prezzo il terreno, ch'essi occupavano con palazzi e giardini, ma il grosso del popolo Romano trovavasi affollato in piccolo spazio; e i differenti piani e quartieri della medesima casa eran divisi, come anche adesso si costuma in Parigi, ed in altre città, fra più famiglie di plebei. IV. È fissato esattamente il numero totale delle case de' quattordici rioni di Roma nella descrizione della città composta al tempo di Teodosio, ed ascendono a quarantottomila trecento ottanta due253. Le due specie di abitazioni Domus e Insula, nelle quali sono esso divise, comprendono tutte le abitazioni della capitale di qualunque grado e condizione, dal palazzo di marmo degli Anicj, contenente un numeroso treno di liberti e di schiavi, fino alle alte e ristrette case a pigione, dove il poeta Codro e la sua moglie non potevan tenere che una miserabil soffitta immediatamente sotto i tegoli. Se si voglia usare l'istesso metodo, che in simili circostanze fu adoprato a Parigi254, e si assegnino indistintamente circa venticinque persone per casa di qualunque grado, potremo giustamente considerar gli abitanti di Roma in numero di un milione e dugentomila: numero che non può reputarsi eccessivo per la Capitale di un grande Impero, quantunque superi la popolazione delle più vaste città moderne d'Europa255.

      A. 408

      Tale era lo stato di Roma sotto il regno d'Onorio, allorchè l'esercito Gotico formò l'assedio o piuttosto il blocco della città256. Mediante una giudiziosa distribuzione delle numerose sue truppe, che impazientemente aspettavano il momento dell'assalto, Alarico circondò le mura, dominando le dodici porte principali, tolse ogni comunicazione coll'addiacente paese, e vigilantemente guardò la navigazione del Tevere, da cui traevano i Romani il più sicuro ed abbondante soccorso di provvisioni. I primi sentimenti dei Nobili e del Popolo furono quelli di sorpresa e di sdegno, che un vile Barbaro ardisse d'insultare la Capitale del Mondo; ma la loro arroganza fu presto umiliata dalla disgrazia; ed esercitaron vilmente contro un'innocente indifesa vittima la loro debole rabbia, invece di dirigerla contro l'armato nemico. Nella persona di Serena i Romani avrebbero forse potuto rispettare la nipote di Teodosio, la zia, ed anzi la madre adottiva del regnante Imperatore; ma essi abborrivano la vedova di Stilicone, ed ascoltarono con credula passione le dicerie della calunnia, che l'accusò di tenere una segreta e rea corrispondenza coll'invasor Goto. Mosso o trasportato dalla medesima popolar frenesia, anche il Senato, senza ricercare alcuna prova del suo delitto, pronunziò contro di essa la sentenza di morte. Serena fu ignominiosamente strangolata; e l'infatuata moltitudine restò sorpresa in vedere, che quel crudele atto d'ingiustizia non produsse tosto la ritirata dei Barbari, e la liberazione della città. L'infelice Roma soffrì appoco appoco i travagli della carestia; e finalmente le orride calamità della fame. La quotidiana distribuzione di tre libbre di pane fu ridotta alla metà, ad un terzo, a niente; ed il prezzo del grano di continuo cresceva con una stravagante e rapida proporzione. I cittadini più poveri, che non potevan comprare le cose necessarie per la vita, sollecitavano con le preghiere la carità de' più ricchi: e per qualche tempo fu sollevata la pubblica miseria dall'umanità di Leta, vedova dell'Imperator Graziano, che aveva fissato la sua residenza in Roma, ed impiegava in soccorso dei bisognosi la regia entrata, che annualmente riceveva dai grati successori del suo marito257. Ma questi privati o temporanei donativi non erano sufficienti a saziare la fame d'un numeroso popolo; ed in progresso la penuria invase anche i palazzi di marmo dei senatori medesimi. Le persone di ambedue i sessi, che erano state allevate nell'abbondanza degli agi e del lusso, conobbero quanto poco basti per supplire alle domande della natura; e prodigalizzavano i loro inutili tesori d'oro e d'argento per ottenere quella vile e scarsa provvisione, che precedentemente avrebbero rigettata con isdegno. Avidamente si divoravano e si disputavano fieramente per la violenza della fame i cibi più ripugnanti all'immaginazione ed al senso, e gli alimenti più malsani e perniciosi all'umana costituzione. Vi fu qualche oscuro sospetto, che alcuni miserabili disperati si cibassero dei corpi de' loro simili, che avevano segretamente uccisi, e fino le madri (tale fu l'orrido contrasto dei due più potenti istinti, dalla natura inspirati nel cuore umano) fino le stesse madri fu detto, che gustassero la carne degli scannati lor figli258. Più migliaia di abitanti di Roma spirarono nelle lor case e nelle strade per mancanza di cibo; e siccome i pubblici sepolcri fuori della città erano in poter del nemico, il fetore che usciva da tanti putridi ed insepolti cadaveri, infettò l'aria; e le miserie della fame seguite furono ed aggravate dal contagio d'un morbo pestilenziale. Le promesse d'un pronto ed efficace soccorso, che venivano replicate dalla Corte di Ravenna, sostennero per qualche tempo il debole coraggio de' Romani, ma finalmente la disperazione d'ogni aiuto umano li tentò ad accettar l'offerta d'una soprannaturale liberazione. Pompeiano, Prefetto di Roma, era stato persuaso dall'arte o dal fanatismo di alcuni divinatori Toscani, che per la misteriosa forza d'incanti e sacrifici potevano trarre i lampi dalle nuvole, e diriger que' celesti fuochi contro il campo dei Barbari259. Fu comunicato l'importante segreto ad Innocenzo Vescovo di Roma, ed il Successore di S. Pietro è accusato, forse senza fondamento, di avere preferito la salute della Repubblica alla rigida severità del Culto Cristiano. Ma quando agitossi tal questione in Senato, quando vi fu proposta come essenziale la condizione, che quei sacrifici dovevan farsi nel Campidoglio coll'autorità ed in presenza de' Magistrati, la maggior parte di quella rispettabile assemblea, temendo l'ira o Divina o Imperiale, ricusò di aver parte ad un atto, che sembrava quasi equivalere alla pubblica restaurazione del Paganesimo260.

      A. 409

      L'ultima speranza de' Romani dipendeva dalla clemenza o almeno dalla moderazione del Re dei Goti. Il Senato, che in quest'occasione assunse la suprema potestà del governo, mandò due ambasciatori per trattar col nemico. Quest'importante incombenza fu data a Basilio,


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<p>248</p>

Lipsio (Tom. III. p 423. de magnitud, Rom. l. III. c. 3) ed Isacco Vossio (Observ. var. p. 26, 34) si son lasciati trasportare da strani sogni di quattro, di otto, o di quattordici milioni di persone in Roma. David Hume, (Saggi Vol. I. p. 460-457) unitamente ad un ammirabile buon senso e scetticismo, dimostra qualche segreta disposizione a diminuir la popolazione degli antichi tempi.

<p>249</p>

Olimpiodoro, ap. Phot. p. 197. Vedi Fabric., Bibl. Graec. Tom. IX. p. 400.

<p>250</p>

In ea autem majestate urbis, et civium infinita frequentia innumerabiles habitationes opus fuit explicare. Ergo cum recipere non posset area plana tantam multitudinem in urbe, ad auxilium altitudinis aedificiorum res ipsa coegit devenire: Vitruv. II. 8. Questo passo, di cui son debitore al Vossio, è chiaro, forte, e pieno.

<p>251</p>

Le successive testimonianze di Plinio, di Aristide, di Claudiano, di Rutilio ec. provano l'insufficienza di questi editti restrittivi. Vedi Lipsio, de Magnitud. Rom. l. III c. 2.

… Tabulata, tibi jam tertia fumant,

Tu nesciis; nam si gradibus trepidatur ab imis

Ultimus ardebit, quem tegula Sola tuetur

A pluvia…

Juvenal., Satir. III. 199.
<p>252</p>

Leggasi tutta la satira terza, ma particolarmente i versi 166-223. La descrizione dell'insula, o casa d'appigionarsi piena di gente in Petronio (c. 95. 97) perfettamente s'accorda coi lamenti di Giovenale; e sappiamo da prove legali, che al tempo d'Augusto (Heinec., Hist. Jur. Rom. c. IV. p. 181) la rendita ordinaria di varj cenacoli o appartamenti d'una isola era di quarantamila sesterzi l'anno, fra tre e quattrocento lire sterline (Pandect. lib. XIX. Tit II. n. 30); somma che prova nel tempo stesso e la grand'estensione, e l'alto valore di quelle comuni fabbriche.

<p>253</p>

Questa somma totale è composta di 1780 Domus o vaste case, di 46,602 insule o abitazioni plebee (vedi Nardini, Rom. ant. l. III. p. 88); e questi numeri vengono assicurati dalla conformità dei testi delle diverse Notitiae (Nardini, l. VIII. p. 498-500).

<p>254</p>

Vedasi l'esatto scrittore Messance, Recherches sur la Population p. 17-187. Appoggiato a probabili o certi fondamenti egli assegna a Parigi 23,565 case, 71,114 famiglie, e 576,630 abitanti.

<p>255</p>

Questo computo non è molto diverso da quello che il Brotier, ultimo editore di Tacito, (Tom. II. pag. 380) ha tratto da principj simili; quantunque sembri, che esso tenda ad un grado di precisione, a cui non è possibile nè importante di giungere.

<p>256</p>

Quanto ai fatti seguiti nel primo assedio di Roma, che vengono spesso confusi con quelli del secondo e del terzo, vedi Zosimo l. V. p. 350-354. Sozomeno lib IX. c. 6, Olimpiodoro, ap. Phot. p. 180, Filostorgio lib. XII. c. 3, e Gotofredo, Dissert. p. 467-475.

<p>257</p>

La madre di Leta era chiamata Pissuxena. Erano però ignoti il padre, la famiglia, e la patria di essa. (Ducange, Famil. Byzantin. p. 59).

<p>258</p>

Ad nefandos cibos erupit esurientium rabies et sua invicem membra laniarunt, dum mater non parcit lactenti infantiae: et recipit utero quem paullo anta effuderat. Girolam., ad Principiam Tom. I. p. 121. La stessa orribile circostanza parimente si racconta degli assedj di Gerusalemme e di Parigi. Quanto all'ultimo, si paragonino fra loro il decimo libro dell'Enriade, ed il Giornale di Enrico IV. (T. I. p. 47-83) e si osservi che una semplice narrazione dei fatti è molto più patetica delle più elaborate descrizioni dell'epica poesia.

<p>259</p>

Zosimo (l. V. p. 355, 356) parla di queste ceremonie come un Greco male informato della nazionale superstizione di Roma e della Toscana. Io sospetto, che contenesser due parti, cioè le segrete e le pubbliche: le prime erano probabilmente un'imitazione delle arti e degl'incantesimi, coi quali Numa aveva tratto Giove ed il suo fulmine sul monte Aventino.

… Quid agant laqueis, quae carmina dicant,

Quaque trahant superis sedibus arte Jovem,

Scire nefas homini…

Gli ancili o scudi di Marte, pignora Imperii, che si portavano nelle processioni solenni per le calende di Marzo, traevano l'origine da questo misterioso evento (Ovid., Fastor. III. 259, 398). Si aveva probabilmente intenzione di far risorgere quest'antica festa, che era stata soppressa da Teodosio. In tal caso noi scuopriremmo una data cronologica, vale a dire il primo di Marzo dell'anno 409, che finora non si è osservata.

<p>260</p>

Sozomeno (l. IX. c. 6.) induce a credere, che l'esperimento fosse realmente fatto, quantunque senza successo; ma non rammenta il nome d'Innocenzo; ed il Tillemont (Mem. Eccl. Tom. X. p. 645) è determinato a non credere, che un Papa potesse esser reo d'una sì empia condiscendenza.