Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 6. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 6 - Edward Gibbon


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Province, ed a Giovanni, primo Tribuno dei Notari, che era specialmente atto per la sua destrezza negli affari, non meno che per l'antica sua intrinsichezza col Principe Goto. Introdotti che furono alla presenza di esso, dichiararono con un linguaggio forse più alto di quello che conveniva alla umile lor condizione, che i Romani erano risoluti di mantenere la lor dignità in pace ed in guerra: e che se Alarico negava loro una discreta ed onorevol capitolazione, poteva suonare le sue trombe, e prepararsi a dar battaglia ad un immenso popolo esercitato nelle armi ed animato dalla disperazione. «Più folto che è il fieno, più facilmente si sega»: tale fu la concisa risposta del Barbaro; e questa rozza metafora fu accompagnata da un alto insultante riso, ch'esprimeva il suo disprezzo per le minacce d'un imbelle popolo, snervato dal lusso prima di esser emaciato dalla fame. Quindi condiscese a determinare la contribuzione, che avrebbe ricevuta per prezzo della sua ritirata dalle mura di Roma: cioè tutto l'oro e l'argento che si trovava nella città, o appartenesse allo Stato, o ai particolari; tutti i mobili ricchi e preziosi; e tutti gli schiavi, che avesser potuto provare d'aver diritto al nome di Barbari. I ministri del Senato ardirono di domandare in un tuono modesto e supplichevole: «Se tali, o Re, sono le vostre domande, che cosa volete lasciare a noi?» «Le vostre vite» replicò il superbo conquistatore: tremarono essi, e si ritirarono. Pure avanti che tornassero indietro fu accordata una breve sospensione di armi, che dava qualche tempo per una più temperata negoziazione. Il duro sembiante d'Alarico appoco appoco ammollissi; egli diminuì molto il rigor dei suoi termini, ed alla fine acconsentì di toglier l'assedio mediante il pagamento fatto subito di cinquemila libbre d'oro, di trentamila libbre d'argento, di quattromila vesti di seta, di tremila pezze di panno scarlatto fine, e di tremila libbre di pepe261. Ma era esausto il pubblico tesoro: le annue rendite dei gran fondi, tanto in Italia, quanto nello Province, erano sospese dalle calamità della guerra; l'oro e le gemme nel tempo della penuria si erano cambiate coi cibi più vili; le private ricchezze erano tuttavia tenute nascoste dall'ostinazione degli avari; ed alcuni residui di sacre spoglie furono l'unico spediente che potè liberar la città dall'imminente rovina. Tosto che i Romani ebbero soddisfatto le rapaci domande d'Alarico, ricuperarono in qualche modo il godimento della pace e dell'abbondanza. Si aprirono con cautela alcune porte della città; non era più impedita dai Goti l'introduzione della roba dal fiume e dalla vicina campagna; i cittadini correvano in folla al libero mercato, che per tre giorni fu tenuto nei sobborghi; e mentre i mercanti, che intrapresero questo lucroso commercio, facevano un considerabil guadagno, fu assicurata in futuro la sussistenza della città per mezzo di ampie provvisioni, che si depositarono dentro ai pubblici e privati granai. Nel campo di Alarico si mantenne una disciplina più regolare di quella che si sarebbe potuta aspettare; ed il savio Barbaro giustificò il riguardo che aveva per la fede dei trattati, mediante la giusta severità con cui gastigò una truppa di licenziosi Goti, che avevano insultato alcuni cittadini Romani sulla via, che conduceva ad Ostia. Il suo esercito, arricchito dalle contribuzioni della capitale, avanzavasi lentamente verso la bella e fertil Provincia della Toscana, dove disegnava di porre il suo quartiere d'inverno; e la bandiera Gotica divenne il rifugio di quarantamila schiavi Barbari, che rotte le loro catene aspiravano, sotto il comando del grande loro liberatore, a vendicare le ingiurie e la disgrazia della loro crudel servitù. Verso il medesimo tempo ricevè un più onorevol rinforzo di Goti e di Unni, che Adolfo262, fratello della sua moglie, aveva condotto, a' pressanti suoi inviti, dalle rive del Danubio a quelle del Tevere; e che si erano aperta la strada con qualche difficoltà e perdita fra mezzo ad un superior numero di truppe Imperiali. Un vittorioso Capitano, che univa l'audace spirito di un Barbaro con l'arte e la disciplina di un Generale Romano, trovavasi alla testa di centomila combattenti; e l'Italia pronunziava con terrore e rispetto il nome formidabile d'Alarico263.

      A. 409

      Alla distanza di quattordici secoli, noi possiamo esser contenti di riferire le imprese militari dei Conquistatori di Roma senza presumere d'investigare i motivi della politica loro condotta. Alarico, in mezzo alla sua apparente prosperità, conosceva forse qualche segreta debolezza, qualche interno difetto; o forse la moderazione, che dimostrava, tendeva solo a deludere e disarmare la facile credulità dei ministri d'Onorio. Il Re dei Goti dichiarò più volte, che egli desiderava d'esser considerato come l'amico della pace e de' Romani. Alle sue più premurose istanze furono mandati tre Senatori alla Corte di Ravenna per sollecitare il cambiamento degli ostaggi e la conclusione del trattato; e le proposizioni, che egli più chiaramente espresse nel corso della negoziazione, possono soltanto inspirare dubbio sulla sua sincerità, come quelle che male sembrano accordarsi collo sembrare incoerenti allo stato della sua fortuna. Il Barbaro aspirava sempre al posto di Generale degli eserciti dell'Occidente; stipulò un annuo sussidio di danaro e di grano; e scelse le Province della Dalmazia, del Norico, e di Venezia per sede del suo nuovo regno, che avrebbe dominato l'importante comunicazione fra l'Italia e il Danubio. Se poi non si fossero accettate queste moderate proposizioni, Alarico si dimostrava disposto a recedere dalle sue domande di danaro, ed anche a contentarsi del possesso del Norico, esausto e povero paese, perpetuamente esposto alle scorrerie dei Barbari della Germania264. Ma le speranze della pace andarono a male per la debole ostinazione, o per le interessate mire del Ministro Olimpio. Senz'ascoltare le salutevoli rappresentanze del Senato, ne rimandò gli ambasciatori con una scorta militare, troppo numerosa per un seguito d'onore, troppo debole per un'armata di difesa. Fu ordinato a seimila Dalmati, che erano il fiore delle Legioni Imperiali, che marciassero da Ravenna a Roma per mezzo ad un'aperta campagna, che era occupata dalle formidabili forze dei Barbari. Questi bravi legionarj, circondati e traditi, sacrificati furono alla follìa ministeriale. Valente, lor Generale, con cento soldati fuggì dal campo di battaglia; ed uno degli Ambasciatori, che non poteva più invocare la protezione del diritto delle genti, fu costretto a comprar la sua libertà col riscatto di trentamila monete d'oro. Ciò non ostante Alarico, invece d'adirarsi per tal atto d'impotente ostilità, immediatamente rinnovò le sue proposizioni di pace, e la seconda ambasceria del Senato Romano, a cui dava peso e dignità la presenza d'Innocenzo, Vescovo di Roma, fu guardata da' pericoli del viaggio con un distaccamento di soldati Goti265.

      Olimpio266 avrebbe potuto continuare ad insultare il giusto sdegno del popolo, che altamente accusavalo come autore della pubblica calamità; ma il suo potere fu appoco appoco distrutto dagli intrighi segreti del palazzo. Gli Eunuchi favoriti trasferirono il governo d'Onorio e dell'Imperio in Giovio, Prefetto del Pretorio, indegno servo, che non purgò neppure col merito d'un personale affetto gli errori e le sciagure della sua amministrazione. L'esilio o la fuga del colpevole Olimpio lo riservò ad altre vicende della fortuna: ei provò lo avventure di una vita oscura e vagabonda; s'innalzò di nuovo alla potenza, cadde per la seconda volta nella disgrazia; gli furon tagliati gli orecchi; e spirò sotto le verghe, somministrando l'ignominiosa sua morte un grato spettacolo agli amici di Stilicone. Dopo la remozione d'Olimpio il cui carattere era profondamente viziato dal fanatismo religioso, i Pagani e gli Eretici restaron liberi da quella politica proscrizione, che gli escludeva dalle dignità dello Stato. Il valoroso Gennerido267, soldato d'origine barbara, che sempre aderiva al culto dei suoi maggiori, era stato costretto a spogliarsi del cingolo militare: e quantunque fosse più volte assicurato dall'Imperatore medesimo, che le leggi non eran fatte per le persone del grado o merito suo, egli ricusò d'accettare qualunque particolar dispensa, e persistè in un'onorevol disgrazia, finattantochè non ebbe ottenuto, un atto generale di giustizia dall'angustia in cui si trovava il Governo Romano. La condotta di Gennerido nell'importante posto, a cui fu promosso o restituito, di Generale della Dalmazia, della Pannonia, del Norico e della Rezia, parve, che ravvivasse la disciplina e lo spirito della Repubblica. Le sue truppe, da una vita d'oziosità e di miseria, tosto s'abituarono al disciplinato esercizio, e ad un'abbondante sussistenza; e la privata sua generosità spesse volte suppliva alle ricompense, che erano negate dall'avarizia o dalla povertà della Corte di Ravenna. Il valore di Gennerido, formidabile ai vicini Barbari, fu il più forte baloardo della frontiera Illirica; e la vigilante sua diligenza procurò all'Impero un rinforzo di diecimila Unni, che giunsero ai confini dell'Italia accompagnati da tal convoglio di provvisioni, e da un seguito così numeroso di bovi e di pecore, che avrebber


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Il pepe era un ingrediente favorito della più sontuosa cucina Romana, e la sorte migliore di esso vendevasi quindici denarii, o dieci scellini la libbra. Vedi Plinio, Hist. Nat. XII. 14. Era portato dall'India; ed il medesimo paese, cioè la costa del Malabar, tuttavia ne somministra la più grande abbondanza: ma il perfezionamento del commercio e della navigazione ha moltiplicato la quantità e diminuito il prezzo di esso. Vedi Hist. Polit. et Philos. ec. Tom. I. p. 457.

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Questo Capitano Goto è chiamato Athaulphus da Isidoro e da Giornandes; Ataulphus da Zosimo e da Orosio: e da Olimpiodoro Adaoulphus. Io mi son servito del celebre nome d'Adolfo, che sembra essere autorizzato dalla pratica degli Svedesi, figli o fratelli degli antichi Goti.

<p>263</p>

Il trattato fra Alarico ed i Romani ec. è preso da Zosimo lib. V. p. 354, 355, 358, 359, 362, 363. Le circostanze, che vi si potrebbero aggiungere, sono troppo poche e di piccola importanza per esigere qualche altra citazione.

<p>264</p>

Zosimo, lib. V. p. 367, 368, 369.

<p>265</p>

Zosimo, lib. V. p. 360, 361, 362. Il Papa, essendo restato a Ravenna, scansò le imminenti calamità di Roma, Orosio, l. VII. c. 39 p. 573.

<p>266</p>

Per le avventure d'Olimpio e de' suoi successori nel ministero, vedi Zosimo (l. V. p. 363, 365, 366) ed Olimpiodoro (ap. Phot. p. 180, 181).

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Zosimo (l. V, p. 364) riferisce tal circostanza con visibile compiacenza, e celebra il carattere di Gennerido come l'ultima gloria del Paganesimo spirante. Assai diversi furono i sentimenti del Concilio di Cartagine, che deputò quattro Vescovi alla Corte di Ravenna per dolersi della legge, stata fatta poco avanti, che ogni conversione al Cristianesimo dovesse esser libera e volontaria. (Vedi Baron., Annal. Eccles. an. 409. n. 12. ap. 48 n. 47, 48).