La caccia di Zero. Джек Марс

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La caccia di Zero - Джек Марс


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avanzò con attenzione, controllando la stanza. Vicino alla porta c’era una poltrona verde. La stoffa sulla seduta e sullo schienale era leggermente scolorita, formando l’impronta di una persona che doveva esservi stata seduta di recente. Vi si inginocchiò accanto, seguendo l’impronta con le punte guantate delle dita.

      Qualcuno è rimasto seduto qui per ore. Un uomo alto un metro e ottanta per ottanta chili di peso.

      Era lui. Era seduto qui, vicino all’unico ingresso, accanto alla finestra.

      Reid rinfilò la pistola nella fondina e tirò indietro le coperte. Le lenzuola erano macchiate, non erano state cambiate. Le studiò con attenzione, sollevando ogni cuscino, facendo in modo da non smuovere potenziali prove.

      Trovò due capelli biondi, lunghi fili senza le radici. Erano caduti naturalmente. Trovò anche un singolo filo moro. Erano qui insieme, su questo letto, mentre lui stava lì seduto e le guardava. Ma perché? Perché Rais le aveva portate lì? Perché si erano fermati? Era solo un’altra manovra nel suo gioco del gatto con il topo, o stava aspettando qualcosa?

      Forse stava aspettando me. Ci ho messo troppo a seguire gli indizi. Se ne sono già andati.

      Se Watson aveva già mandato la falsa segnalazione, la polizia sarebbe arrivata al motel tra pochi minuti, e Strickland doveva già essere su un elicottero. Ma Reid si rifiutava di andarsene senza una pista con cui avanzare, o sarebbe stato tutto inutile, solo l’ennesimo vicolo cieco.

      Corse nell’ufficio del motel.

      Lì il tappeto era verde e ruvido sotto i suoi stivali, e gli ricordava l’erba artificiale. Il posto puzzava di fumo di sigaretta. Dietro il bancone c’era una soglia buia, da cui Reid sentiva provenire un suono a volume basso, forse una radio o una televisione.

      Suonò la campanella sul bancone, e uno squillo stonato risuonò nell’ufficio silenzioso.

      “Mmh.” Un basso grugnito emerse dalla stanza nel retro, ma non ne uscì nessuno.

      Reid suonò di nuovo la campanella, tre volte in rapida successione.

      “Va bene, amico! Gesù.” Una voce maschile. “Arrivo.” Un giovane uomo uscì dal retro. Sembrava tra la ventina e la trentina. Per l’agente era difficile dirlo con precisione, vista la sua pelle rovinata e gli occhi arrossati, come se li fosse strofinati dopo una dormita. Portava una piccola anella argentato alla narice sinistra e i suoi capelli biondo sporco erano annodati in dreadlock spelacchiati.

      Fissò Reid per un lungo momento, irritato dal semplice concetto che qualcuno fosse entrato nel suo ufficio. “Sì? Che c’è?”

      “Sto cercando informazioni,” rispose lui con tono piatto. “Un uomo è stato qui di recente, caucasico, sulla trentina, insieme a due ragazze adolescenti. Una mora e una più giovane, bionda. È arrivato su un SUV bianco. Hanno soggiornato nella stanza nove…”

      “Sei un poliziotto?” lo interruppe il commesso.

      Reid si stava arrabbiando in fretta. “No, non lo sono.” Avrebbe voluto aggiungere che era il padre delle due ragazze, ma si fermò; non voleva che il commesso fosse in grado di identificarlo più di quanto non avrebbe già potuto fare.

      “Ascolta, amico, io non so niente di ragazzine,” insistette quello. “Quello che la gente fa qui sono affari…”

      “Voglio solo sapere quando è stato qui, e se ha visto le due ragazze. Voglio il nome che l’uomo le ha dato e devo sapere se ha pagato in contati o con carta di credito. Se ha usato una carta, mi servono le ultime quattro cifre del numero. E ho bisogno di sapere se le ha detto qualcosa o se ha sentito qualche dettaglio che mi aiuti a capire dove possono essere andati.”

      Il commesso lo fissò per un lungo momento, e poi emise una risatina roca. “Amico mio, guardati attorno. Questo non è il tipo di posto che chiede nomi, carte di credito o cose del genere. Qui la gente affitta una camera per un’ora, se capisci quello che voglio dire.”

      Reid dilatò le narici. Ne aveva avuto abbastanza di quell’idiota. “Deve esserci qualcosa, qualsiasi cosa, che può dirmi. Quando ha fatto il check in? Quando se n’è andato? Che cosa le ha detto?”

      Il ragazzo gli lanciò un’occhiata astuta. “Quanto vale per te? Per cinquanta bigliettoni ti dirò tutto quello che vuoi.”

      La furia dell’agente si accese in una vampata rovente. Si tese oltre il bancone, afferrò il giovane commesso per il bavero della maglietta e lo tirò a sé, sollevandolo quasi da terra. “Non sai da cosa mi stai trattenendo,” ringhiò in faccia al ragazzino, “né quello che farei per ottenerlo. Mi dirai quello che voglio sapere o mangerai con una cannuccia per il tuo prossimo futuro.”

      Il ragazzo alzò le mani, sgranando gli occhi di fronte alla rabbia di Reid. “Va bene, amico! Va bene! C’è un, ehm, un registro sotto il bancone… fammelo prendere e controllo. Ti dirò quando sono stati qui, okay?”

      Reid emise un sibilo e lo lasciò andare. Il giovane barcollò all’indietro, si raddrizzò la maglietta e poi tastò sotto il bancone alla ricerca di qualcosa.

      “Nei posti come questo,” disse piano, “con il tipo di clientela che ci ritroviamo… a loro piace la loro privacy, se capisci cosa intendo. Non sono felici quando qualcuno ficca il naso nei loro affari.” Fece due lenti passi all’indietro, estraendo il braccio destro da sotto il bancone… e stringendo tra le dita il calcio marrone di fucile a canne mozze.

      L’agente sospirò mesto e scosse la testa. “Stai per desiderare di non averlo mai fatto.” Il commesso gli stava facendo perdere tempo per proteggere la feccia come Rais—non che il ragazzo sapesse in cosa l’assassino fosse coinvolto nello specifico—e ogni genere di tipo sordido, come papponi e trafficanti.

      “Torna al tuo quartiere, amico.” Gli puntò la canna del fucile al torace, ma tremava. Reid ebbe la sensazione che fosse abituato a usare l’arma per minacciare, ma che non avesse mai sparato prima.

      Sapeva senza ombra di dubbio di essere più rapido del commesso; non avrebbe nemmeno esitato a sparargli, alla spalla o alla gamba, se significava ottenere quello che voleva. Ma non voleva fare fuoco. I rumore si sarebbe sentito nel raggio di un chilometro nella zona industriale vuota. Avrebbe spaventato gli ospiti del motel, e magari avrebbe anche spinto qualcuno a chiamare la polizia, e a lui non serviva quell’attenzione.

      Invece adottò un approccio diverso. “Sei sicuro che quella cosa sia carica?”

      Il commesso abbassò lo sguardo sul fucile per un impercettibile secondo. In quel preciso istante, mentre guardava da un altra parte, Reid piantò una mano sul bancone e lo superò con un balzo. Gli sferrò un calcio e gli fece volare via l’arma dalle mani. Non appena ebbe di nuovo i piedi a terra, si chinò in avanti e gli diede una gomitata sul naso. Il ragazzo emise un roco gemito quando gli esplose il sangue da entrambe le narici.

      Poi per buona misura Reid lo prese per i dreadlocks luridi e gli sbatté la faccia sul bancone.

      Il ragazzo collassò sul ruvido tappeto verde, mugugnando e perdendo sangue dal naso e dalle labbra spaccate. Piagnucolando cercò di sollevarsi sulle mani e sulle ginocchia. “Tu… oddio… mi hai spaccato il naso, cazzo!”

      Reid afferrò il fucile a canne mozze. “Questo è l’ultimo dei tuoi problemi.” Gli premette le canne contro i dreadlock biondastri.

      Il commesso si lasciò cadere subito sullo stomaco singhiozzando. “Non… non uccidermi… ti prego no… ti prego… non uccidermi…”

      “Dammi il tuo telefono.”

      “Io non… non ne ho uno…”

      Reid si chinò e lo perquisì in fretta. Era stato sincero, non aveva un cellulare, ma aveva un portafoglio. Lo aprì e controllò la sua patente.

      “George.” Sbuffò. Quel ragazzo non sembrava un George. “Hai un’auto qui, George?”

      “Ho… ho una moto da cross, pa-parcheggiata qui dietro…”


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