La caccia di Zero. Джек Марс

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La caccia di Zero - Джек Марс


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ma capisci che sono arrivati i rinforzi…

      La CIA aveva fatto esperimenti con macchine di quel tipo per tirar fuori i suoi agenti dalle zone calde. Lui stesso aveva preso parte a uno di quegli esperimenti.

      Davanti a sé non c’erano comandi, ma solo uno schermo LED su cui campeggiava la sua velocità di trecento quaranta chilometri orari e il tempo stimato d’arrivo di cinquantaquattro minuti. Accanto era appesa una cuffia. La prese e se l’infilò sulle orecchie.

      “Zero.”

      “Watson. Gesù. Come hai avuto questa roba?”

      “Non è merito mio.”

      “Quindi è stato Mitch,” disse Reid, confermando i propri sospetti. “Non è solo una ‘risorsa’, vero?”

      “È tutto quello che vuoi che sia, purché ti fidi di lui e accetti il suo aiuto.”

      La velocità del quadricottero aumentò sempre di più, raggiungendo quasi i cinquecento chilometri orari. Il tempo stimato d’arrivo calò di diversi minuti.

      “E l’agenzia?” volle sapere. “Possono…?”

      “Rintracciarlo? No. Troppo piccolo e vola ad altitudini troppo basse. Oltretutto è stato decommissionato. Hanno ritenuto che il motore fosse troppo rumoroso perché potesse essere utile come velivolo clandestino.”

      Tirò un breve sospiro di sollievo. Ora aveva un obiettivo, quello Starlight Motel nel New Jersey, e almeno non l’aveva trovato grazie a una provocazione di Rais. Se fossero stati ancora lì, avrebbe potuto mettere fine a quella situazione… o almeno avrebbe potuto provarci. Sapeva che l’unico modo per chiuderla era un confronto con l’assassino, durante il quale avrebbe anche dovuto proteggere le sue ragazze dal fuoco incrociato.

      “Voglio che aspetti quarantacinque minuti. Poi manda la soffiata del motel a Strickland e alla polizia locale,” disse a Watson. “Se lui è lì, voglio più rinforzi possibile.”

      Quando la CIA e la polizia fossero arrivati, o le sue figlie sarebbero state al sicuro, o Reid Lawson sarebbe morto.

      CAPITOLO OTTO

      Maya stringeva forte a sé la sorella. La catena delle manette tintinnava tra i loro polsi; Sara aveva le mani alzate al petto e la stava abbracciando a sua volta. Le due ragazze erano sedute insieme sui sedili posteriori dell’auto.

      L’assassino era alla guida della macchina e si era avviato lungo Port Jersey. Il porto era molto grande, Maya credeva che proseguisse per diverse centinaia di metri. Ai loro lati si alzavano pile di container. Formavano un percorso stretto. Tra le loro mura metalliche e i finestrini della macchina c’era solo qualche decina di centimetri.

      Viaggiavano con i fari spenti ed era pericolosamente buio, ma la cosa non sembrava turbare Rais. Di tanto in tanto, attraverso una fessura tra i container, Maya riusciva a vedere delle luci in lontananza, vicine all’acqua. Sentiva persino il ronzio di macchinari. C’era gente al lavoro, tutt’intorno a loro. E tuttavia non ne era rassicurata. Fino a quel momento Rais aveva dimostrato una grande attitudine alla pianificazione, e dubitava che avrebbe lasciato vedere le sue prigioniere da sguardi indiscreti.

      Stava a lei evitare che le mandasse fuori dal paese.

      L’orologio al centro del cruscotto dell’auto segnava le quattro del mattino. Era passata meno di un’ora da quando aveva lasciato il biglietto nel serbatoio del gabinetto nel motel. Poco dopo Rais si era alzato all’improvviso e aveva annunciato che era il momento di mettersi in viaggio. Senza spiegare nulla le aveva guidate fuori dalla camera, ma non erano andati verso la station wagon bianca su cui erano arrivati. Invece le aveva condotte a un modello d’auto più vecchio, a qualche metro dalla loro stanza. Con estrema facilità aveva scassinato la porta e le aveva fatte salire sui sedili posteriori. Poi aveva strappato la piastrina sul blocchetto d’accensione e in pochi secondi aveva collegato i cavi per avviare la macchina.

      Con il favore delle tenebre erano arrivati al porto, e ora si stavano avvicinando all’estremità settentrionale della terra ferma, dove finiva il cemento e iniziava la Newark Bay. Rais rallentò e parcheggiò la macchina.

      Maya sbirciò al di là del parabrezza. Erano di fronte a una nave, un’imbarcazione piuttosto piccola per gli standard commerciali. Non doveva essere lunga più di venti metri da un’estremità all’altra, ed era carica di container metallici cubici grandi un metro e mezzo per un metro e mezzo. In quella zona del pontile, oltre alla luna e alle stelle, l’unica luce veniva da due fioche lampadine giallastre sulla nave, una a poppa e l’altra a prua.

      Rais spense il motore e rimase seduto in silenzio per un lungo momento. Poi face lampeggiare i fari, una volta sola. Due uomini uscirono dalla cabina della nave. Lo scrutarono e scesero lungo la stretta rampa allungata tra l’imbarcazione e il pontile.

      L’assassino si voltò sul sedile per fissare Maya negli occhi. Disse una sola parola, pronunciandola lentamente. “Ferma.” Poi uscì e richiuse la porta, fermandosi dopo pochi passi ad aspettare l’arrivo dei due uomini.

      La ragazza serrò la mascella e cercò di rallentare i rapidi battiti del suo cuore. Se fossero salite su quella nave e avessero lasciato la terra ferma, sarebbe stato molto più difficile ritrovarle. Non riusciva a sentire cosa si dicevano gli uomini, udiva solo mormorii profondi mentre Rais parlava con loro.

      “Sara,” sussurrò. “Ti ricordi cosa ho detto?”

      “Non posso.” La voce della sorella si spezzò. “Non…”

      “Devi.” Erano ancora ammanettate insieme, ma la rampa per salire sulla nave era stretta, ampia solo mezzo metro. Con ogni probabilità avrebbero dovuto liberarle. E una volta che l’avessero fatto… “Non appena mi muovo, scappa. Devi trovare altre persone. Nasconditi se necessario. Devi…”

      Non riuscì a finire la frase. La porta posteriore si aprì di scatto e Rais le scrutò. “Uscite.”

      Maya si sentiva le ginocchia deboli mentre scivolava giù dal sedile, seguita da Sara. Si costrinse a guardare i due uomini che erano scesi dalla barca. Avevano entrambi la pelle chiara e gli occhi e i capelli scuri. Uno dei due portava una barbetta sottile e i capelli corti, e sulle braccia incrociate sul petto aveva una giacca di pelle nera. L’altro indossava un cappotto marrone. I suoi capelli erano più lunghi, gli arrivavano alle orecchie. La grossa pancia gli sporgeva oltre la cintura e sulle sue labbra aleggiava un ghigno.

      Il secondo uomo, quello più in carne, prese a muoversi attorno alle due ragazze, camminando lentamente. Disse qualcosa in una lingua straniera, la stessa che Rais aveva parlato a telefono nella stanza del motel.

      Poi pronunciò una singola parola in inglese.

      “Carine.” Scoppiò a ridere. Il suo compagno vestito di pelle sogghignò. Rais rimase impassibile.

      Con quell’unica parola, una nuova consapevolezza della situazione si fece strada nella mente di Maya, paralizzandola come dita di ghiaccio attorno alla gola. Stava succedendo qualcosa di molto peggio di un semplice rapimento. Non voleva neanche pensarci, né tantomeno soffermarsi a riflettere sui dettagli. Non poteva essere vero. Non quello. Non a loro.

      Spostò lo sguardo sul mento di Rais. Non sopportava di guardare nei suoi occhi verdi.

      “Tu.” Parò con voce bassa e tremante, facendo fatica a pronunciare quelle parole. “Sei un mostro.”

      L’uomo sospirò gentile. “Forse. È solo una questione di prospettiva. Io ho bisogno di un passaggio dall’altra parte dell’oceano e voi siete la mia merce di scambio. Il mio biglietto, se preferite.”

      Maya aveva la bocca secca. Non pianse e non tremò. Sentì solo un gran freddo.

      Rais le stava vendendo.

      “Ah-ehm.” Qualcuno si schiarì la gola. Cinque paia d’occhi si voltarono di scatto mentre un nuovo personaggio si avvicinava alla luce fioca della nave.

      La ragazza


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