La caccia di Zero. Джек Марс

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La caccia di Zero - Джек Марс


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anche se non sembravano essercene.

      Riuscì a identificare solo un nome, che le fece gelare il sangue nelle vene.

      “Dubrovnik,” disse l’assassino, in tono d’assenso.

      Dubrovnik? La geografia era una delle sue materie preferite; Dubrovnik era una città nel sud-ovest della Croazia, un porto famoso e una popolare destinazione turistica. Ma la cosa più importante era ciò che quella parola implicava.

      Voleva dire che Rais aveva intenzione di portarle fuori dal paese.

      “Ano,” ripeté (che sembrava una conferma; Maya intuì che fosse un “sì”). E poi: “Port Jersey.”

      Durante tutta la conversazione udì solo quelle due parole inglesi, oltre a “pronto”, e le riconobbe facilmente. Il loro motel era già vicino a Bayonne, a un tiro di schioppo dal porto industriale chiamato Port Jersey. Lo aveva visto diverse volte, mentre attraversava il ponte per andare verso il Jersey da New York o viceversa. Era un vasto spazio pieno di container colorati per il trasporto merci, impilati uno sopra l’altro. Li aveva osservati svanire nella stiva buia delle grandi navi che li avrebbero trasportati dall’altra parte dell’oceano.

      Il cuore le batté all’impazzata contro le costole. Le voleva portare fuori dagli Stati Uniti, caricandole a Port Jersey per un viaggio fino alla Croazia. E da lì… non aveva idea, e non l’avrebbe avuta nessun altro. Non avrebbero più potuto ritrovarle.

      Non poteva permettere che accadesse. La sua determinazione a lottare si rafforzò; la decisione di ostacolare quella situazione tornò alla vita con un ruggito.

      Il trauma causato dall’immagine di Rais che tagliava la gola alla donna nel bagno dell’area di sosta persisteva; lo rivedeva accadere ogni volta che chiudeva gli occhi. Lo sguardo morto e vuoto. La pozza di sangue che le arrivava quasi ai piedi. Ma poi toccò i capelli della sorella e capì che avrebbe accettato lo stesso destino se significava allontanare Sara da quell’uomo.

      Rais continuò la sua conversazione nella lingua straniera, pronunciando frasi brevi e secche. Si voltò per scostare leggermente le pesanti tende, solo di un centimetro o due, per sbirciare fuori verso il parcheggio.

      Le stava dando la schiena, forse per la prima volta da quando erano arrivati allo squallido motel.

      Maya allungò una mano ed estrasse con molta attenzione il cassetto del comodino. Era l’unica cosa che riusciva a raggiungere, ammanettata alla sorella e senza alzarsi dal letto. Spostò nervosamente lo sguardo dalla schiena del suo rapitore al cassetto.

      Dentro c’era una Bibbia, un volume vecchio con il dorso spaccato e quasi staccato. E vicino c’era una semplice biro blu.

      La prese e chiuse subito il cassetto. Quasi nello stesso momento Rais si rigirò. Maya si paralizzò, stringendo la penna nel pugno chiuso.

      Ma l’uomo non le stava prestando attenzione. Sembrava annoiato dalla telefonata, e ansioso di chiuderla. Qualcosa alla televisione attirò il suo sguardo per qualche secondo e la ragazza si nascose la biro nell’elastico in vita dei suoi pantaloni in flanella.

      L’assassino grugnì un saluto poco entusiasta e spense il cellulare, buttandolo sul cuscino della poltrona. Si voltò verso di loro, studiandole una per una. Maya fissò dritta davanti a sé, con occhi più vacui possibile, fingendo di guardare il notiziario. Apparentemente soddisfatto, lui riprese posto in poltrona.

      La ragazza accarezzò i capelli della sorella con la mano libera, mentre Sara fissava la televisione, o forse il vuoto, con gli occhi socchiusi. Dopo l’incidente nel bagno della stazione di servizio le erano servite ore per smettere di piangere, ma ormai giaceva immobile, con sguardo sperso e appannato. Sembrava svuotata.

      Le mosse la mano su e giù per la schiena, tentando di consolarla. Non potevano comunicare. Rais aveva detto esplicitamente che non avevano il permesso di parlare, a meno che non avesse fatto loro una domanda. Non aveva modo per riferirle un messaggio e creare un piano.

      Anche se… magari non dobbiamo per forza comunicare verbalmente, pensò.

      Maya smise di toccarle la schiena per un istante. Quando ricominciò, usò il dito indice per tracciare la forma di una lettera tra le sue scapole, una grande S.

      Sara alzò incuriosita la testa per un momento, ma non guardò verso la sorella né disse niente. Maya sperò disperatamente che avesse capito.

      T, disegnò allora.

      Poi una R.

      Rais era seduto in poltrona nella visione periferica della ragazza. Non spostò mai lo sguardo su di lui per paura di attirare i suoi sospetto. Invece fissò dritta davanti a sé, come aveva fatto fino a quel momento, e disegnò le lettere.

      I. N. G. I.

      Mosse il dito con lentezza e deliberazione, fermandosi per un paio di secondi tra ogni lettera e cinque tra ogni parola, fino a tracciare tutto il suo messaggio.

      Stringimi la mano se hai capito.

      Maya non la vide nemmeno muoversi. Ma avevano le mani vicine, essendo ammanettate insieme, e sentì le sue dita fredde e bagnate chiudersi con forza sulle proprie per un istante.

      Aveva capito. Aveva ricevuto il suo messaggio.

      Ricominciò di nuovo, spostandosi il meno possibile. Non c’era fretta, e doveva essere certa che la sorella comprendesse ogni parola.

      Se riesci, scrisse, scappa.

      Non girarti.

      Non aspettarmi.

      Trova aiuto. Trova papà.

      Sara rimase ferma, in silenzio e immobile, per tutto il messaggio. Mancava un quarto alle tre quando Maya finì. Poi percepì il tocco freddo di un dito sottile sul palmo della sua mano sinistra, nascosta in parte sotto la guancia della sorella. Il dito tracciò un disegno sulla sua pelle, la lettera N.

      Non senza di te, disse Sara.

      Maya chiuse gli occhi e sospirò.

      Devi farlo, rispose a sua volta. O nessuna di noi avrà una chance.

      Non lasciò alla sorella il modo di rispondere. Una volta finito il messaggio, si schiarì la gola e disse piano: “Devo andare in bagno.”

      Rais sollevò le sopracciglia e indicò il bagno aperto all’estremità della stanza. “Prego.”

      “Ma…” Maya alzò il polso ammanettato.

      “Quindi?” domandò l’assassino. “Portala con te. Hai una mano libera.”

      Lei si morse il labbro. Sapeva che cosa stava facendo; l’unica finestra del bagno era stretta, a malapena grande abbastanza perché riuscisse a passarci attraverso e del tutto impraticabile con la sorella ammanettata al braccio.

      Si alzò lentamente dal letto, sospingendo Sara perché si muovesse con lei. La ragazzina più piccola si spostò in maniera meccanica, come se si fosse dimenticata l’uso degli arti.

      “Avete un minuto. Non chiudete a chiave la porta,” le avvertì Rais. “Se lo fate la tirerò giù a calci.”

      Maya si avviò e accostò la porta del minuscolo bagno, angusto per la presenza di entrambe. Accese la luce—abbastanza certa di aver visto uno scarafaggio correre a nascondersi sotto il lavandino—e attivò la ventola, che ronzò rumorosamente.

      “Non lo farò,” bisbigliò quasi subito Sara. “Non andrò senza di…”

      Maya si portò in fretta un dito alle labbra per segnalarle di fare silenzio. Per quel che ne sapevano, Rais era dall’altra parte della porta, con un orecchio appoggiato al legno. Quell’uomo non correva rischi.

      Tirò fuori in fretta la biro dall’orlo dei pantaloni. Le serviva qualcosa su cui scrivere, e l’unico oggetto disponibile era la carta igienica. Ne strappò qualche riquadro e li sparse sul lavandino, ma ogni volta che ci premeva sopra la punta, la carta si strappava. Ci riprovò con diversi pezzetti, ma fu tutto inutile.


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