Una Ragione per Morire. Блейк Пирс

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Una Ragione per Morire - Блейк Пирс


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è…”

      “No, mamma. Tu per me sei tossica. Lo so che hai cercato davvero di aggiustare le cose tra di noi, che sono anni che ci provi. Ma non sta funzionando e non credo che lo farà mai, dopo quello che è successo. Quindi… ti prego, vattene. Vattene e smettila di chiamarmi.”

      “Ma Rose, questo…“

      Allora la ragazza scoppiò a piangere, aprendo la porta ed esplodendo. “Mamma, vuoi per favore andartene, cazzo!”

      Poi abbassò lo sguardo al pavimento, soffocando i singhiozzi. Avery trattene le lacrime e obbedì alla figlia. Le passò davanti, lottando con tutte le sue forze contro la tentazione di abbracciarla o di cercare di farle cambiare idea. Uscì dall’appartamento e si ritrovò fuori, al freddo.

      Ma forse il rumore della porta che si sbatteva alle sue spalle fu la cosa più fredda di tutte.

      ***

      Prima ancora di riuscire ad avviare l’auto, Avery si mise a piangere. Una volta in strada e diretta verso la sua nuova casa, fece di tutto per trattenere i singhiozzi che le squassavano il petto. Mentre le lacrime le scorrevano sul volto, si rese conto che aveva pianto di più negli ultimi quattro mesi che quanto avesse fatto in tutti gli anni precedenti. Prima la morte di Jack, poi Ramirez. E ora questo.

      Forse Rose aveva ragione. Forse era tossica. Perché in fin dei conti, le morti di Jack e Ramirez erano state colpa sua. La sua carriera ambiziosa aveva portato l’assassino alle persone che più le stavano a cuore, e ne aveva fatto degli obiettivi.

      E quella stessa carriera aveva allontanato Rose. Non importava nemmeno che ormai fosse finita. Si era ritirata poco dopo il funerale di Ramirez e anche se sapeva che Connelly e O’Malley l’avrebbero ripresa senza problemi, non era un invito che aveva intenzione di accettare.

      Entrò nel suo vialetto d’ingresso, parcheggiò l’auto ed entrò in casa con il volto ancora striato di lacrime. La triste verità era che se avesse abbandonato del tutto la carriera, la sua vita sarebbe rimasta vuota. Il suo futuro marito era stato ucciso, così come l’ex marito con cui era stata in buoni rapporti, e ora, l’unica sopravvissuta del suo passato, sua figlia, non voleva più avere niente a che fare con lei.

      E invece di sistemare le cose, che cosa hai fatto? chiese una piccola parte di lei. Sembrava la voce di Ramirez, che voleva spiegarle come stava peggiorando la sua situazione. Hai abbandonato la città e ti sei ritirata nei boschi. Invece di affrontare il dolore di una vita sconvolta, sei fuggita e hai passato gli ultimi giorni a bere per dimenticare. E ora cosa farai? Scapperai di nuovo? Non sarebbe meglio aggiustare tutto?

      Una volta tornata dentro la sua cabina, si sentì più al sicuro di quanto non fosse stata sulla porta di Rose. Il dolore di essere stata cacciata dalla casa della figlia si attenuò. Sì, si sentiva una codarda, ma non sapeva cos’altro fare.

      Ha ragione, pensò. Io sono tossica per lei. Negli ultimi anni non ho fatto altro che renderle la vita difficile. È iniziato tutto quando ho messo la carriera al di sopra di suo padre ed è diventato peggio quando il lavoro è diventato più importante di lei, per quanto cercassi di limitarlo. Ed eccoci di nuovo qui, lontane anche se non ho più il mio lavoro.

      Perché mi incolpa per l’omicidio di suo padre.

      E non ha tutti i torti.

      Lentamente si avvicinò al letto che doveva ancora sistemare. Lì c’era la sua cassetta di sicurezza, appoggiata tra la testata e le doghe. Mentre l’apriva, ripensò a come era entrata nel soggiorno di Jack e l’aveva trovato morto. Pensò a Ramirez all’ospedale, già ferito gravemente prima ancora di essere ucciso.

      Le sue mani erano sporche del loro sangue, e non sarebbe mai riuscita a pulirle.

      Estrasse la Glock dalla cassetta. Era familiare tra le sue mani, come una vecchia amica.

      Riprese a piangere, appoggiando la schiena alla testata del letto. Guardò la pistola, studiandola. Ne aveva avuta una al fianco o sulla schiena per quasi due decenni, più intima di quanto fosse stato ogni altro essere umano. Le sembrò fin troppo naturale appoggiarsela contro la carne morbida sotto il mento. Il suo tocco era freddo ma deciso.

      Emise un singhiozzo spostandone l’inclinazione, per essere certa che il proiettile l’avrebbe attraversata nel modo migliore. Il suo dito trovò il grilletto e vi tremò contro.

      Si chiese se avrebbe sentito lo sparo prima di morire e se in quel caso, sarebbe stato più assordante della porta che Rose le aveva sbattuto alle spalle.

      Piegò il dito sul grilletto e chiuse gli occhi.

      Il campanello di casa squillò e Avery fece un balzo.

      Allentò il dito e la tensione abbandonò di colpo il suo corpo. La Glock ricadde a terra.

      Per poco, pensò, mentre il cuore le pompava adrenalina a litri nel sangue. Solo un altro istante e sul muro dietro di me ci sarebbero le mie cervella.

      Abbassò lo sguardo sulla Glock e l’allontanò con uno schiaffo, come se fosse stata un serpente velenoso. Sprofondò la testa tra le mani e si asciugò le lacrime.

      Ti sei quasi ammazzata, disse la voce che avrebbe potuto essere quella di Ramirez. Non ti fa sentire una codarda?

      Allontanò quel pensiero mentre si alzava in piedi e si dirigeva verso la porta. Non aveva idea di chi potesse essere. Osò sperare che fosse Rose ma era certa che non fosse così. Sua figlia era come lei da quel punto di vista, fin troppo testarda.

      Aprì la porta e non trovò nessuno. Tuttavia vide il retro di un camioncino delle Poste che stava uscendo dal suo vialetto. Abbassò lo sguardo sulla veranda e trovò una scatoletta. La sollevò, leggendo il proprio nome e il nuovo indirizzo in una scrittura molto elegante. Non c’era il mittente, solo un recapito di New York.

      La portò dentro e l’aprì lentamente. Quasi non pesava nulla e una volta aperta vide solo dei giornali arrotolati. Li tolse e trovò un’unica cosa per lei, appoggiata sul fondo.

      Era un foglio di carta, piegato a metà. Lo aprì e quando lesse il messaggio, il suo cuore si fermò per un istante.

      E così, svanì anche il desiderio di uccidersi.

      Lesse e rilesse il messaggio, cercando di trovargli un senso. La sua mente lo analizzò, cercando una risposta. E con quell’enigma davanti, era fuori questione anche solo l’idea di morire, prima della sua risoluzione.

      Si sedette sul divano e lo fissò, continuando a leggerlo.

      chi sei tu, avery?

      tuo,

      Howard

      CAPITOLO TRE

      Nei giorni seguenti, Avery continuò a toccarsi il punto sotto il mento dove aveva poggiato la canna della pistola. Le prudeva, come una puntura d’insetto. Ogni volta che si sdraiava per dormire e stendeva il collo con la testa sul cuscino, si sentiva la pelle esposta e vulnerabile.

      Avrebbe dovuto affrontare il fatto che aveva toccato il fondo. Anche se ne era stata sollevata, aveva raggiunto il momento più buio della sua esistenza. Sarebbe stata per sempre una macchia nei suoi ricordi e sembrava che gli stessi nervi del suo corpo non volessero permetterle di dimenticarlo.

      Nei tre giorni dopo il suo quasi-suicidio, fu più depressa di quanto non fosse mai stata prima nella sua vita. Passò quelle giornate stesa sul divano. Cercò di leggere ma non riusciva a concentrarsi. Cercò di trovare la motivazione per andare a fare una corsa, ma era troppo stanca. Continuava a guardare la lettera di Howard, tanto che la carta iniziò a spiegazzarsi per il continuo contatto con le sue mani.

      Smise di bere dopo aver ricevuto la lettera. Lentamente, come un bruco, iniziò a uscire dal suo bozzolo di autocommiserazione. Riprese a fare esercizio, poco alla volta. Poi toccò al Sudoku e alle parole crociate, per tenere la mente allenata. Senza dover lavorare, e sapendo di aver abbastanza soldi da non dover preoccuparsi di niente per almeno un anno,


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