I Robinson italiani. Emilio Salgari
Читать онлайн книгу.folate di scintille che s'innalzavano attraverso l'alberatura del veliero, e quei riflessi sanguigni che si proiettavano sul viso dei marinai, corrugò la fronte, ma senza manifestare alcuna impressione di terrore.
— Un incendio? — diss'egli, volgendosi verso il capitano. — Se non mi svegliavo, mi lasciavate adunque arrostire tranquillamente nella mia cabina?
— Siete voi, signor Emilio? — chiese il comandante sporgendosi dal cassero.
— In persona, comandante.
— Venite ad aiutarci, se vi preme la pelle.
— La cosa è grave?
— Gravissima, signore. La stiva è piena di fuoco e....
— Che cosa?
— Corriamo il pericolo di saltare in aria, — disse il capitano a voce bassa, per non farsi udire dai marinai.
— Dite?...
— Che vi sono sei quintali di polvere sotto il carico di cotone. —
Colui che veniva chiamato il signor Emilio, trasalì, poi balzando sulla scaletta del cassero con un'agilità sorprendente, da farsi invidiare dal più svelto gabbiere di bordo, raggiunse i due comandanti.
— Siamo nelle mani di Dio, adunque, — diss'egli, impugnando una scure.
— Sì, e non so se avremo il tempo per finire la zattera.
— Un tempo sono stato ufficiale di mare come voi, capitano e di tali costruzioni me ne intendo. In acqua la boma della randa e poi picchiamo dentro all'albero maestro. Ci potranno servire per un primo punto d'appoggio.
— Ben detto, signor Emilio. —
La boma, staccata alla base, fu gettata in mare tenendola attaccata ad un gherlino, poi i tre uomini assalirono vigorosamente l'albero maestro.
Ormai non si illudevano più sulla salvezza del veliero. L'incendio, quantunque vigorosamente combattuto dall'equipaggio, il quale non cessava un solo istante dal manovrare le pompe, guadagnava rapidamente e minacciava l'intera alberatura.
La grande fiamma, per un istante domata, tornava a irrompere attraverso il boccaporto, bruciando le vele ed i cordami. Da un istante all'altro poteva avvenire la spaventevole esplosione.
Il capitano ed il secondo, pur continuando a maneggiare con furore le scuri, impallidivano a vista d'occhio ed anche il loro compagno cominciava a perdere la sua ammirabile calma. Vi erano certi momenti in cui s'arrestavano per tendere gli orecchi onde meglio raccogliere i sordi brontolii delle fiamme divoratrici o gli scricchiolii dei corbetti che si fendevano o il fragore dei puntali che cadevano a due a due per volta.
— Presto!... presto!... — ripeteva il capitano.
L'albero, reciso, ad un tratto oscillò con un lungo crepitìo, poi l'enorme tronco piombò sulla murata di babordo fracassandola e immerse nelle onde illuminate la punta dell'alberetto, seco trascinando pennoni, vele e cordami.
Quasi nel medesimo istante una sorda detonazione echeggiò nel ventre infiammato del legno. Era scoppiata una parte della polvere?...
Il capitano gettò un urlo d'angoscia.
— Tutti in acqua!... La polvere! la polvere! la po.... —
Non finì. Mentre alcuni uomini, più agili degli altri, balzavano sopra le murate, uno spaventevole scoppio rimbombò sul mare.
Una fiamma gigantesca, livida, irruppe dal boccaporto; il ponte ed i fianchi del veliero si squarciarono con indicibile violenza e l'intera massa galleggiante fu sollevata sui flutti.
Per alcuni istanti una enorme nuvola ondeggiò sull'oceano, poi una pioggia di rottami incandescenti piombò sulle onde sibilando, e la carcassa del veliero, sventrata, invasa dalle acque irrompenti attraverso alle squarciature, scomparve nei profondi baratri del mare di Sulu.
Capitolo II Sull'albero maestro
La Liguria era salpata da Singapur il 24 agosto del 1840 diretta ad Agagna, la città più popolosa delle isole Marianne, con un carico di cotoni lavorati, destinati ai capi di quelle isole ed una grossa partita d'armi e sei quintali di polvere per i presidii spagnuoli.
Quantunque fosse stata varata in un cantiere genovese nove anni prima, era in quell'epoca ancora un bel veliero, saldo di costole, di forme eleganti come lo sono tutti i navigli che si costruiscono dai Liguri, con un solido sperone e portava splendidamente la sua alta alberatura da brigantino a palo.
Il capitano Martino Falcone, uno di quei lupi di mare della riviera, pieno d'audacia e d'energia, l'aveva acquistato coi suoi risparmi, e da vero discendente del grande Colombo, aveva intrapreso le lunghe navigazioni, più pericolose sì ma ben più rimunerative del grande e piccolo cabotaggio.
Formato un equipaggio di scelti marinai, raccolti in tutti i porti dell'Adriatico e del Tirreno, aveva intrapreso degli arditi viaggi in India, nell'estremo oriente ed anche nel grande Oceano Pacifico, infischiandosene delle tempeste, dei tifoni dei mari della China, e delle pericolose scogliere della Malesia e della Polinesia.
Per nove anni aveva percorso tutti quei mari con invidiabile fortuna, accumulando delle somme assai rotonde, affrontando vittoriosamente le ire dei marosi e le furie dei venti e senza mai cambiare i suoi bravi marinai dei quali mai aveva avuto a dolersi, ma nel suo penultimo viaggio, la fortuna aveva cominciato ad abbandonarlo.
Una tempesta che lo aveva sorpreso all'entrata dello stretto di Malacca, mentre da Rangun si recava a Singapur, aveva malmenata la sua nave in tale modo, da costringerlo, appena giunto a destinazione, a metterla in cantiere per delle lunghe riparazioni.
Quella disgrazia doveva essergli fatale.
Due dei suoi più valenti marinai, stanchi di quel riposo prolungato, avevano rotto l'arruolamento e si erano imbarcati su altre navi, sicchè, giunto il momento della partenza, aveva dovuto mettersi in cerca d'altri per completare l'equipaggio.
La mala fortuna gli aveva fatto trovare due marinai maltesi, sbarcati alcune settimane prima da una nave inglese. Perchè avevano lasciata la nave che dalle acque del Mediterraneo li aveva portati sulle coste della Malacca?... Nessuno lo sapeva ed il capitano Martino, che preferiva avere a bordo dei marinai del Mediterraneo e possibilmente degli italiani, non aveva cercato di scoprirne il motivo, tanto più che la nave inglese aveva lasciato il porto tre settimane prima, in rotta pei porti del Celeste Impero.
Pochi giorni dopo però, doveva pentirsene di quei nuovi arruolati. Appena in alto mare, fuori di vista dalle coste della Malacca, i maltesi avevano cominciato a dare segni d'insubordinazione.
Lavoravano il meno possibile, non compivano mai interamente i quarti di guardia sia notturni che diurni, si ribellavano ai comandi del nostromo, poi a quelli del secondo e finalmente a quelli del capitano.
Dovendo poggiare a Varauni per prendere una ragguardevole provvista di olii canforati, pure destinati agli isolani delle Marianne, aveva deciso di sbarazzarsene; ma giunto nel porto della capitale del regno di Borneo, i due maltesi, che da qualche giorno pareva che fossero pentiti, con mille promesse erano riusciti a farsi mantenere a bordo.
Era stato precisamente a Varauni che il capitano Falcone aveva imbarcato, in qualità di passeggiero, quell'uomo che abbiamo udito chiamare il signor Emilio, dietro speciali raccomandazioni del console olandese.
Quel passeggiero non era un olandese, ma un italiano come tutto l'equipaggio della Liguria. Era un veneziano da parecchi anni stabilitosi nel Borneo, dove aveva fatto una considerevole fortuna trafficando in canfora.
Antico ufficiale di marina, poi esploratore per conto del governo olandese, quindi negoziante ricchissimo, si era imbarcato per fare delle esplorazioni per suo conto nelle isole del grand'Oceano.
Uomo istruitissimo, amabile, energico quanto il capitano, aveva tenuto buona compagnia a tutti, facendosi