Solo Per Uno Schiavo. Svyatoslav Albireo

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Solo Per Uno Schiavo - Svyatoslav Albireo


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peggiori perversioni. Avere più di una confessione religiosa non era nulla di speciale. Nessuna era più importante di un’altra. I rappresentanti di ciascuna avevano gli stessi diritti e doveri. E le stesse depravazioni. Forse, erano pure più sregolati dei comuni mortali.

      Quella era la sua vita, il suo stato sociale.

      Talmente prezioso che non gli era nemmeno permesso di andarsene in giro da solo. Sempre legato, spesso rinchiuso. Non si poteva correre il rischio che venisse rubato. O, peggio, che scappasse. Perché lui, di fuggire, ci pensava continuamente.

      Ma dove sarebbe andato? Cosa avrebbe fatto? Completamente nudo, senza denaro, senza la minima conoscenza. Forse, avrebbe potuto sopravvivere nella foresta. Ma come ci sarebbe arrivato? Fino a che punto sarebbe sopravvissuto? E quando l’avrebbero catturato? Non voleva pensarci.

      Fantasticava su indipendenza ed emancipazione, ma non gli sembrava il caso di agire.

      Da quando era bambino, gli era stato inculcato che fosse solo un giocattolo, nato per quel motivo ed esclusivamente quello. Era stato nutrito a pane e umiliazioni.

      La verità era che aveva paura della Libertà. Non la conosceva. Come poteva mantenersi, da solo? Certo, sapeva cucinare e tenere pulito. Ma come avrebbe pagato la casa dove avrebbe vissuto? Non sapeva niente di concreto. L’ignoto lo spaventava più degli abusi subiti a Dora da tutti quei preti pedofili.

      I suoi pensieri furono interrotti da un respiro affannoso.

      Sicuramente l’ennesima Padrona che si toccava ammirando i suoi muscoli. Patetico. I suoi sogni di un amante gentile, con cui vivere in una casetta sulla scogliera, divelti all’improvviso.

      Si voltò subito, perché non sia mai che quella Padrona pensasse fosse un maleducato. Ma di fronte a lui, un altro Schiavo. Uno di lusso, con gli occhi che sembravano ciliegie. Faceva sicuramente parte dell’Élite di Firokami. Quel colore di occhi era troppo raro per non essere altrimenti.

      Al gli sorrise. Erano colleghi, dopotutto. Non aveva nulla da temere dalla concorrenza.

      Il ragazzo si avvicinò. Era bellissimo.

      “Ciao,” disse, timido.

      “Ciao,” rispose Al.

      E il nuovo arrivato si insinuò accanto a lui. Senza invito.

      “Ti fa male?” gli chiese, con dolcezza.

      Al non aveva mai incontrato prima d'ora uno Schiavo D’Alto Borgo che si preoccupasse per gli altri. Avide puttane, li definiva Aletta. E, per quanto gli costasse ammetterlo, aveva ragione. Quei giovani amavano gioielli e lingotti. Li amavano più di loro stessi. Al era sempre più confuso. Il ragazzo gli accarezzò la guancia, dove il piscio si era incrostato. La Bestia sussultò. Si sentiva a disagio. Perché? Emozioni rischiose si stavano pericolosamente risvegliando in lui.

      Scosse la testa, fissando il ragazzo. “No,” disse.

      Quella fragile, perfetta bellezza lo fissava a sua volta. Ovunque. Poi, lo sguardo si bloccò sul cazzo della Bestia. E sorrise. Moscio, sì, ma bello e fiero. Era quasi primordiale. E, sotto quello sguardo cremisi, Al divenne duro. Per l’ennesima volta in pochissimo tempo. Imbarazzo. Quella parola non descriveva affatto lo stato in cui versava. Tale sensazione era quasi sconosciuta, certamente dimenticata. E scattò in piedi. Il giovane lo guardò, dal basso verso l’alto. Poi, scoppiò a ridere. Profumava di fresco, ma anche di caldo. Di noci, ma anche di fiori. Dolce, ma avventato. Si alzò anche lui. Aveva addosso solo un paio di mutandine. Talmente ridotte che, se anche non le avesse indossate, sarebbe stata la stessa cosa. Si avvicinò, felino, e cominciò ad accarezzare l’erezione della Bestia. Il ragazzo era molto più basso e gracile di lui. Quindi, si sollevò in punta di piedi per poterlo baciare. Fu a quel punto che Al si risvegliò.

      “Cosa stai facendo?”

      “Cerco di rimorchiarti,” grugnì il giovane, mentre respirava -a pieni polmoni- l’odore dell’altro.

      “Qui?!” E Al si stupì di se stesso. Da quand’è che era diventato così timido?

      “Certo che no! Andiamo nella mia cabina,” rispose il ragazzo, acido e seducente, mentre tirava il guinzaglio.

      Quel corpo era così reale, così allettante. Al, d’improvviso, lo strinse. Dopo di che, si chinò in avanti e lo baciò. Le mani che scivolavano sulle spalle e la schiena di quel giovane sconosciuto e sfacciato.

      Si staccò.

      “Sono uno Schiavo,” disse, aggrappandosi alle ultime vestigia del suo buonsenso.

      “Lo vedo,” gli sorrise l’altro, accoccolandosi meglio tra le sue braccia.

      Poi, il baratro.

      Accadde tutto molto in fretta. Le mutandine sparirono, le gambe si spalancarono, la schiena si arcuò, le labbra gemettero. La Bestia si spingeva, nervosa, dentro quel culetto oh-così-stretto e oh-così-impaziente. Tutto scomparve. C’erano solo loro due. L’ultimo barlume di razionalità dirottato all’urgenza di non venire subito. Impresa titanica, con quell’acerba bellezza che gli si agitava in grembo. Come non venire, con tutta quella pelle sotto le dita?

      “Di più, ti prego, ancora,” gli sussurrava quello, dopo ogni spinta.

      Dentro, fuori, su, giù.

      Lo Schiavo cercò in tutti i modi di resistere, mentre seppelliva il viso tra i riccioli del ragazzo e il cazzo nel suo culo.

      Ancora dentro, ancora fuori, ancora su, ancora giù.

      I gemiti si fecero sempre più acuti. I gridolini si trasformarono in urla. Le carezze vennero sostituite da graffi. Poi, quel giovane venne. E fu la cosa più bella che Al vide in tutta la sua vita. Ma il piacere fu talmente forte da diventare insostenibile. Il ragazzo tentò di allontanarsi da quello spiedo che lo stava devastando. Ma la Bestia non ci stava. Nossignore. Non aveva la minima intenzione di lasciarsi scappare quel gioiello prezioso. Quindi, fece l’unica cosa possibile. Gli afferrò i fianchi, lo immobilizzò sulla sua erezione e martellò -incessante- quel posticino particolare. Profondo, tra le natiche, l’entrata per il Paradiso.

      Artigli affilati gli lacerarono la pelle delle spalle. Ma il suo orgasmo fu così perfetto che lui nemmeno li sentì.

      Strinse forte quell’angelo tra le braccia. Non voleva lasciarlo, ma come poteva trattenerlo? Non aveva nulla.

       Nulla.

      Per la prima volta, il desiderio di Libertà si fece impellente.

      Doveva trovare una soluzione. Doveva strappare quelle catene. Doveva scappare, con lui.

      Ma dove? Verso l’Oceano?

      Doveva fare qualcosa. Qualsiasi cosa.

      “Come ti chiami?” gli chiese. Perché, ovviamente, i convenevoli prima di tutto.

      Ma non sentì mai la risposta. Si voltò, d’improvviso, percependo una presenza accanto a sé.

      Melinda, un’amica-nemica di Aletta, era a un palmo da lui. E sogghignava sadica.

      “Vattene,” disse, quindi, spingendo via il ragazzo. “Non avvicinarti mai più a me.”

      Ma mentre lo disse, qualcosa gli morì dentro. Il giovane lo guardò e la Bestia sperò che il suo sguardo contraddicesse in toto le parole appena pronunciate. Lui lo fissò, le palpebre pesanti di lussuria, le labbra gonfie di baci. Un attimo dopo sparì tra la folla.

      Erano circondati.

      Doveva agire così.

      Era l’unico modo.

      L’avrebbero portato via.

      Via da lui.

      No, non l’avrebbe permesso.

      Sarebbe morto, piuttosto.

      CAPITOLO TRE

      Melinda


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