Solo Per Uno Schiavo. Svyatoslav Albireo

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Solo Per Uno Schiavo - Svyatoslav Albireo


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che gli si agitava dentro.

      Un sospiro, prima di tornare alla realtà.

      La donna afferrò il guinzaglio e lo condusse al Ristorante.

      “Stasera sarà davvero molto divertente. Se ti comporterai bene, avrai una bella sorpresa,” gli promise. Poi, sorrise e si strizzò i seni tra le mani. Al, senza nemmeno pensare, si inchinò e iniziò a baciarli. Puzzavano di borotalco.

      “Ottimo lavoro,” commentò Melinda.

      Al lanciò uno sguardo alla folla. Nessuna traccia del ragazzo, logicamente.

      Nel Ristorante, Aletta recuperò il suo Schiavo. Lo fece inginocchiare davanti alle sue cosce aperte e non ebbe nemmeno bisogno di dirgli cosa fare. Tuttavia, nessuno ci badò. L’intero locale stava osservando il Quarto Tavolo, sì, ma era Stine colui che attirava l’attenzione. Tutti erano in attesa di vedere la Preda. I più maligni si aspettavano che il Padrone si desse alla caccia.

      Finalmente, Ad fece il suo trionfale ingresso in sala. Non sembrava alla ricerca di niente e nessuno, non si guardò mai attorno, ma si diresse -sicuro- verso la tavolata numero Quattro. Le mani come in preghiera, la testa bassa. Gli uomini presenti divennero quasi duri, a quella vista, mentre le donne si incazzarono come faine. Quel bimbo era più bello di loro! Aletta si innervosì talmente tanto da stringere pericolosamente le cosce attorno alla testa della Bestia. Fu un miracolo che non finì decapitato. Ma lo Schiavo non si accorse del suo arrivo. Né sentì nulla, della conversazione successiva. Peccato, perché ne sarebbe stato orgoglioso.

      Alcuni uomini iniziarono a proporre eventuali turni col nuovo arrivato, qualcun altro affermò di averlo visto per primo.

      Stine non si scompose. Anzi, si rilassò meglio sulla sedia.

      “Ciao,” sorrise il ragazzo.

      “Salve,” rispose il Padrone, battendosi su un ginocchio come invitandolo a sedersi.

       Troppo facile.

      “Sto andando via. Sono solo venuto a riportarti una cosa che hai dimenticato, stamattina, quando ci siamo visti.”

      E il cocktail, col mozzicone di sigaretta che ancora ci galleggiava dentro, venne rovesciato addosso al sorriso da-stronzo dell’uomo. L’intero Ristorante trattenne il fiato. Poi, il Padrone bestemmiò e cercò di afferrarlo. Ma il ragazzo aveva tutta l’intenzione di vendere cara la pelle. Artigliò quell’avanbraccio e lo sfregiò.

      “Non ho paura del sangue arterioso, io,” sibilò. “Non avresti dovuto afferrarmi a mani nude. Avresti dovuto spararmi, in mezzo agli occhi. Così mi avresti fermato. Forse.

      Sporca di sangue, la mano si mosse in un gesto di saluto. Uno particolarmente vezzoso.

      Poi, quella bellezza si girò e se ne andò.

      “Bastardo!” esclamò Aletta. Tirò forte i capelli della Bestia, allontanandolo da sé e ridandogli l’udito. “Non ho più voglia di venire.”

      Poi, gettò un piatto a terra. Cocci e cibo si mischiarono pericolosamente.

      “Mangia!” ordinò.

      E Al obbedì. Senza il minimo interesse né per il sushi di prima qualità né per la porcellana affilata. Tutto ciò fece imbestialire ancora di più la sua Padrona. Melinda approfittò della confusione per calpestare ogni singolo boccone. Perché così le andava. Poi, disse all’altra donna, “Non essere così arrabbiata. Vedrai che Stine lo troverà e se lo scoperà a dovere. E domani verrà a chiedere scusa, come si confà alla sua specie.”

      E rise. “Questo lo rende ancora più interessante, non trovate?” aggiunse, poi.

      Nessuno rispose.

      Stine andò in bagno. Quando tornò, sembrava quasi non avesse subito danni. Amir, il proprietario di una rete di supermercati, si mise subito a leccargli il braccio offeso.

      Il Padrone guardò in direzione di quella puttanella senza vergogna. Ma era troppo lontano, ormai. Soprattutto, non prestava la minima attenzione né a Stine né alla sua indignata squadra di supporto. Era come se non fossero nemmeno lì.

      L’uomo era furioso.

      “Gli costerà molto caro,” promise.

      E non era tipo da minacciare invano.

      CAPITOLO QUATTRO

      Ad era sdraiato sul letto della sua cabina. Teneva stretto un cuscino, ondeggiando su un fianco. Nella sua mente e tra i tessuti del suo sistema nervoso, il breve ma intenso rapporto avuto con la Bestia era stato come un lampo luminoso. Quel riverbero non accennava a spegnersi. Nemmeno dopo aver giocato con un nativo di una tribù oceanica. Quel tizio avrebbe sborrato tutta la sera, solo guardandolo in quegli occhi cremisi. Ma Ad aveva pensieri solo per il Dio Pagano. Venne riportato alla realtà da un violento bussare alla porta. Il cuore cominciò a martellargli, furioso, nel petto.

      E se fosse stato lui?

      Si alzò di scatto e si lanciò ad aprire la porta.

      Stine aveva avuto tutta l’intenzione di frustare a sangue quello stronzetto impudente, per poi trascinarlo nella sua suite. Ma vederlo lì, sulla soglia, nudo e stupendo, lo bloccò. Per quanto avesse un’alta opinione di sé e una reputazione degna di essere chiamata tale, il Padrone non aveva mai avuto occasione di osservare Schiavi D’Alto Borgo così da vicino. In realtà, non gli era nemmeno mai interessato scoparsi esemplari di tal fatta. Ma quel ragazzo, ecco, quel ragazzo era tutta un’altra storia. Il diretto interessato, però, non contraccambiava affatto il sentimento. Infatti, una volta capito che non si trattava della Bestia, sbatté la porta sui cardini così forte da far tremare gli stipiti.

      Il Padrone si ritrovò, suo malgrado, a bussare. Di nuovo.

      “Apri immediatamente, se non vuoi farlo sapere a chiunque,” intimò, seccato.

      Ad scoppiò a ridere. Ma chi credeva di essere, quel vecchio? Sticazzi se anche tutta la nave fosse accorsa alla sua cabina. Riacchiappò il cuscino e lo strinse più di prima. Ricordandosi di come quell’uomo lo avesse fatto venire in un modo così devastante, iniziò a toccarsi. I colpi sempre più insistenti e gli avvertimenti sempre più minacciosi non gli davano fastidio. La porta avrebbe retto contro un uragano e ciò gli bastava.

      “Oh, mio Dio,” mugugnò, mentre pensava a quelle mani enormi che gli cingevano la vita. Doveva rivederlo. Era essenziale che lo trovasse. E in fretta, pure.

      Vattene, non avvicinarti mai più a me, gli aveva detto, però, subito dopo. E Ad si rattristò. Poteva mica essere che fosse uno di quelli a cui piaceva conquistare la preda? Magari non apprezzava chi si concedeva subito, senza nemmeno essersi presentato. Ma non gli importava chissà tanto. Voleva sentire, di nuovo, tutto quel potere su di lui. Dentro di lui. Ad sapeva che nessuno, nemmeno un Dio Pagano, poteva rifiutare il piacere che lui era capace di offrirgli. Soprattutto una volta scoperto il suo potenziale. Avrebbe scommesso qualsiasi cosa che avrebbe voluto possederlo e dominarlo.

      Stine si arrese. O, almeno, così sembrò al ragazzo.

      Si sbagliava. Era solo andato alla Reception a chiedere una copia della chiave per poter entrare nella sua cabina. Ma Ad non poteva saperlo. E non gli poteva fregare di meno. Si infilò un paio di pantaloncini e corse fuori, alla ricerca della Bestia.

      Quando Stine tornò, convinto di aver rovesciato la situazione, tentò -di nuovo- l’approccio del bussare. Nessuna risposta. Ridacchiando, usò il passe-partout ed entrò. Sfoggiando il suo miglior sorriso da-stronzo, ovviamente.

      Ma non vide nessuno. Doveva essersi nascosto, il micetto. Iniziò, quindi, ad ispezionare ogni angolo. Controllò perfino sotto il letto. Niente. Nothing. Rien. Nada. Ничего.

      Afferrò la coperta sul letto. Si era già immaginato come avrebbe costretto quella giovane bellezza a succhiarglielo, per poi farlo piangere e implorare. Non poteva mica scoparsi un letto vuoto! Per quanto tempo ancora quella puttana doveva farglielo odorare?! In preda alla rabbia,


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