Il Segreto Dell'Orologiaio. Jack Benton

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Il Segreto Dell'Orologiaio - Jack Benton


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      “Ma perché qui? Perché Penleven? Se non fosse per la sua incapacità di ricordare le funzioni di base, come prendere le chiavi della porta prima di uscire, penserei che sia una spia sotto copertura.”

      Slim alzò le spalle. “Non potevo permettermi di andare all’estero. E la Cornovaglia mia ha sempre affascinato, soprattutto i suoi luoghi scialbi, freddi e tenebrosi che la maggior parte delle persone evita di visitare.”

      “Beh, la descrizione perfetta di Penleven,” disse la Signora Greyson con aria leggermente delusa, come se avesse avuto la sua occasione per andarsene e l’avesse sprecata. “Ci sono solo un paio di centinaia di abitanti, ma almeno non siamo una di quelle cittadine fantasma durante l’inverno, come molti dei paesi sulla costa.”

      “Cittadine fantasma?”

      “Boscastle, Port Isaac, Padstow… hanno solo case vacanze. Prosperano in estate e sono deserte d’inverno. Forse non siamo una comunità molto attiva, ma si incontra sempre un volto amico all’alimentari o al pub.”

      Le volte che si era avventurato fuori dal salone del Crown per ordinare la sua cena, Slim non aveva visto molti volti amici, ma, piuttosto, oppressi, mentre sprofondavano nelle loro birre, fissando il vuoto. Forse era l’inverno — di notte, il vento fischiava, facendo sbattere le finestre così forte da temere, alle volte, che si staccassero dal muro, ed era realmente buio sulla via che portava all’albergo, non il buio di città a cui Slim era abituato. O forse era il fatto di non avere molto di cui parlare da queste parti. Il telefono di Slim non prendeva, a meno che non camminasse per un paio di chilometri in direzione dell’A39, ma per qualcuno che aveva più cose da dimenticare rispetto a quelle da aspettarsi, era la situazione ideale.

      Come arrendendosi al fatto che la caccia al pettegolezzo, che avrebbe potuto far accrescere la sua notorietà tra gli anziani membri dalla lingua lunga della sua comunità, era giunta al termine, la Signora Greyson servì a Slim la sua colazione e si mise in disparte, con le braccia conserte, ad osservarlo per qualche secondo, per poi voltarsi bruscamente e marciare verso la cucina. Slim era rimasto da solo nell’angusta sala da pranzo dell’albergo, composta da tre tavoli addossati così tanto alla parete da aver lasciato il segno sulla carta da parati, ed uno al centro della stanza, come fosse stato dimenticato lì in mezzo. La Signora Greyson, come atto di sfida contro la sfacciataggine con cui la tormentava con i suoi affari, preparava per Slim il posto peggiore di tutti ogni mattina: un tavolino infilato dietro la porta che portava all’ingresso. Il menù, di cui tre delle quattro opzioni erano state depennate, consisteva unicamente in un fritto di cavolo bollito, con un occasionale contorno di fagioli. Dava così tanto gas che Slim doveva lasciare la finestra aperta di notte.

      Almeno il pane tostato era gradevole e il caffè, anche se privo di quel tocco in più che Slim avrebbe aggiunto in passato, era forte e sembrava essere stato preparato il giorno prima, proprio come piaceva a lui.

      Mangiò velocemente, ringraziò la Signora Greyson con un urlo e si diresse fuori prima che questa potesse rimetterlo all’angolo. Fu accolto da un vento umido che fischiava dalla Brughiera di Bodmin per qualche chilometro ad est e che impediva alla sua giacca di mantenerlo al caldo e all’asciutto. Anche quando la brughiera era asciutta, Penleven era avvolta dalla pioggerellina di sempre, come se appartenesse ad un microcosmo a parte.

      L’autobus, che arrivò con dieci ammissibili minuti di ritardo, lo condusse, dopo un interminabile serpeggiare lungo strette e tortuose stradine tra le valli boscose, alla pianura che ospitava la ridente città di Tavistock. Disposta ai margini di un tratto del fiume Tavy, si configurava come un gradevole incasso di strade storiche, rivestite di negozi sorprendentemente cosmopoliti. Cullato dall’inconsueta presenza umana, Slim ne approfittò per rimpiazzare il vecchio sapone del bagno della Signora Greyson, comprare una maglietta di H&M e pranzare in un fast-food. Tornando agli affari, dopo aver assistito alla partita di rugby su un grande schermo, individuò il mercatino vicino al fiume e chiese in giro di un commerciante di antiquariato. Tre persone consigliarono Geoff Bunce, il proprietario di una bottega nascosta all’angolo poco più avanti, vicino ad un bar ben movimentato.

      “Devo far valutare un orologio,” disse Slim a Bunce, il cui girovita e barba bianca lo rendevano un Babbo Natale fuori stagione, aspetto poi accentuato dalle bretelle che gli cingevano la pancia sporgente.

      “Mi faccia dare un’occhiata.”

      Bunce rigirò l’orologio svariate volte, borbottando fra sé e sé con visibile soddisfazione, stringendo gli occhi di tanto in tanto per lanciare un’occhiata sospetta a Slim.

      “Le dispiace se apro il retro?”

      “Nessun problema.”

      Mentre Bunce si mise al lavoro con il cacciavite, Slim si sedette a lato della scrivania e lasciò vagare lo sguardo verso gli scaffali e scatole colmi di cianfrusaglie. Non tanto antiquariato quanto spazzatura di un passato molto lontano.

      “È un amico del vecchio Birch?” chiese Bunce all’improvviso.

      “Cosa?”

      Bunce mostrò una busta rovinata dall’acqua.

      “Il vecchio Birch. Amos.”

      Slim alzò le spalle, chiedendosi se Bunce non stesse comunicando in un qualche dialetto cornico. Poi, mosso dalla frustrazione, l’uomo ripeté, “Amos Birch. L’uomo che ha prodotto quest’orologio. Viveva a Trelee, vicino alla Brughiera di Bodmin. Aveva una fattoria. All’inizio vendeva i suoi orologi proprio qui al mercato di Tavistock, prima di diventare famoso. Era un suo amico?”

      “Sì, un amico.”

      “Quindi immagino che questa le appartenga,” disse, scuotendo la busta come per ricordare a Slim della sua esistenza.

      Slim la prese, percependo immediatamente la delicatezza della carta invecchiata insieme all’umidità. Se avesse provato ad aprirla, la busta si sarebbe sgretolata fra le sue dita e ogni messaggio contenuto al suo interno si sarebbe perduto.

      “Ah, ecco dov’era andata a finire,” disse, sfoggiando un sorriso poco convincente. “La stavo cercando.”

      “Immagino, Signor—?”

      “Hardy. John Hardy, ma le persone mi chiamano Slim.”

      “Non oserò chiedere il perché.”

      “Meglio così. Non è una storia che merita di essere raccontata.”

      Bunce sospirò di nuovo. Rigirò l’orologio un’ultima volta. “È incompiuto,” disse, confermando ciò che Slim aveva già ipotizzato. “Immagino che il suo amico Birch glielo abbia lasciato come regalo? Non avrebbe potuto venderlo in queste condizioni, un uomo con la sua reputazione.”

      “Sembra che lo conoscesse bene.”

      “Eravamo amici ai tempi della scuola. Amos aveva due anni in più di me, ma non c’erano molti bambini. Ci conoscevamo tutti.”

      “Una comunità molto affiatata.”

      “Non è di qua, vero, Signor Hardy?”

      Slim aveva sempre ritenuto di avere una parlata piuttosto neutra, ed era proprio questo che lo rendeva un forestiero in terre dove ci si aspettava un forte accento dell’ovest.

      “Lancashire,” disse. “Ma ho trascorso molto tempo all’estero.”

      “Esercito?”

      “Come faceva a saperlo?”

      “I suoi occhi,” disse Bunce. “Infestati da fantasmi.”

      Slim fece un passo indietro. Una serie di ricordi indesiderati cominciò a passargli davanti, così se li scrollò di dosso, facendoli svanire.

      “Anche lei era nell’esercito?”

      “Isole Falkland. Meno ne parlo, meglio è.”

      Slim annuì. Almeno avevano un punto d’incontro. “Beh, credo di averle rubato anche troppo del suo tempo—”

      “Potrebbe


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