Il Quadriregio. Frezzi Federico

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Il Quadriregio - Frezzi Federico


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che 'ntorno al caldo l'umido non stette;

              ché, quando è consumato l'umor molle,

              accendersi non può 'l secco vapore,

              sí che Vulcan non fece quel ch'e' volle.

              Per questo cominciò con gran rumore

         80 a gridar forte, chiamando difese

              contra Cupido, stimol dell'amore.

              Allora Venus sue braccia distese

              al cielo e disse con parol divote

              al sommo Iove, tanto ch'e' la 'ntese:

         85 – Guarda il vecchio marito, che non puote

              piú difensarsi contro il mio figliuolo:

              vedi ch'e' l'ha percosso e che 'l percote.

              Tu sai che, quando il giganteo stuolo

              volle pigliar il cielo e discacciarte,

         90 piú che null'altro t'aiutò ei solo.

              E fece le saette con sua arte:

              con quelle, o Iove, tu gettasti a terra

              li gran giganti con le membra sparte. —

              In men che alcun non apre gli occhi o serra,

         95 vidi Iove discender giú 'n quel loco,

              ove Cupido a Vulcan facea guerra.

              – Cessa – disse al fanciullo – il sacro foco;

              Amor, se pensi quanto l'hai feruto,

              tu dirai ch'egli è troppo, e non è poco.

        100 E s'egli avesse a te ferir voluto,

              come potea, nella tua persona,

              nullo al suo colpo aver potevi aiuto. —

              A questa voce del signor che tona,

              cessò il foco Cupido e reverente

        105 disse al padrigno: – O padre, a me perdona. —

              Nulla cosa a sdegnarsi è piú fervente

              che 'l buon Amore, e nulla cosa ancora

              si placa e torna piú leggeramente.

              Posta la pace, si partí allora

        110 colle sue ninfe Iove e suoi satelli,

              de' quali il regno suo in ciel s'onora.

              Ma pria la vita a Taura, ed i capelli

              rendé a Vulcano, che parea un menno,

              ed a Cupido i dardi orati e snelli.

        115 Poiché i duo guerreggianti pace fenno,

              Vulcan disse all'Amor: – Perché sí rio

              ver' me se' stato e con sí poco senno?

              Se non che, quando a te saetta' io,

              trassi come a figliuol, non a figliastro:

        120 tu non scampavi mai dal colpo mio.

              E provato averesti ch'io so' il mastro

              di saettar e che non si può opporre

              a me mai scudo, unguento ovver impiastro.

              Io son che getto a terra le gran torre

        125 e li gran monti, e che soccorsi a Iove,

              quando i giganti vòlsonli 'l ciel tôrre.

              Della saetta mia, quando si move,

              i grandi effetti e le varie ferite,

              nulla è filosofia che le ritrove. —

        130 Rise Cupido alle parole udite

              e fe' come fa alcun, che par ch'assenta

              a quel che non è ver, per non far lite.

              E, come aquila fa, quando s'avventa

              alla sua preda rapace e feroce,

        135 ch'ali non batte, perché non si senta;

              cosí ciascuno ingiú venne veloce

              alla dea Venus. Benigna l'accolse

              e poi a Vulcan proferse questa voce:

              – Assai, marito mio, il cor mi dolse,

        140 quando tu fulminasti il dolce figlio

              e che guastasti le su' orate polse.

              Ma piú mi dolse che la barba e 'l ciglio

              egli arse a te e che con tanta asprezza

              nell'aer su ti pose a tal periglio.

        145 Or della doglia io sento gran dolcezza,

              da che tra voi è la concordia posta,

              la qual prego che duri con fermezza. —

              Vulcan non fece a lei altra risposta

              se non che con l'Amor volea la pace;

        150 ché la sua sposa, che gli stava a costa,

              piú 'l riscaldò che 'l foco, ov'egli giace,

              e, se non pel figliastro, facea forse

              cosa ch'è turpe e con beltá si tace.

              Per questo si partí e su ricorse

        155 al regno suo; e Taura sua partita

              fece una seco, onde gran duol mi morse.

              Però a Cupido: – Amore, ora m'aita:

              tu sai che 'l colpo insino a me pervenne,

              allor che Taura fu da te ferita. —

        160 Egli ridendo mosse le sue penne,

              e fuggí via l'Amor senza leanza

              ed alla piaga mia non mi sovvenne.

              Venus a me: – Assai piú bella 'manza,

              – disse – nel regno mio ti doneraggio. —

        165 Però, al conforto di tanta speranza,

      la seguitai per l'aspero viaggio.

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