Il Mostro A Tre Braccia E I Satanassi Di Torino. Guido Pagliarino

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Il Mostro A Tre Braccia E I Satanassi Di Torino - Guido Pagliarino


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della narrazione è dedicato al perché e al come, che il poliziotto espone al suo aiutante e, con lui, al lettore. Viceversa, nel secondo racconto, "D'Aiazzo e i satanassi", le indagini, relative a un’uccisione e a una violenza carnale proseguono fin quasi al termine: Steso a terra sul proprio sangue è ritrovato per strada, da una camionetta della Polizia, il cadavere d’un attempato piccolo industriale, il commendator Paolo Verdi, il cui giovane figlio Carlo, dottore in psicologia, è in prigione in attesa di giudizio, accusato di violenza carnale a Giuseppina Corsati, dattilografa del padre poco più che adolescente; ma egli dichiara al commissario D’Aiazzo d’essere privo di colpa. In carcere è fatto oggetto di brutalizzazioni da parte di altri detenuti, forse a causa del distorto senso di “giustizia” per il quale i violentatori vengono vessati da compagni di detenzione, o forse per mandato esterno di qualcuno affinché Carlo s’intimorisca e si lasci condannare senza difendersi. Di certo la deflorazione di Giuseppina c’è stata, ne presenta i segni, però non potrebbe, forse, la famiglia di lei aver architettato la violenza per averne un risarcimento finanziario? Sicuro è che gli uomini Corsati non sono figure specchiate, anzi sono i bulli del proprio quartiere e in particolare il padre, già sottufficiale delle Brigate Nere a fianco dei nazisti durante il secondo conflitto mondiale, è un bruto assoluto: che sia stato proprio lui a violentare Giuseppina, lei consenziente? O forse uno dei suoi figli maschi? Carlo chiede al commissario d’accertarlo. Intervengono nella storia il poco intelligente Carlone, che aveva avuto in passato nascosti legami con papà Verdi, e un filosofo libero docente all’Università di Torino ed ex ufficiale nella Repubblica di Salò, presso il cui fratello, che ben diversamente era stato membro del Comitato di Liberazione Nazionale, lavora quale cameriera Luciana Corsati, madre di Giuseppina. Dal profondo della vicenda affiorano anche parlamentari tutt’altro che adamantini e, a un certo punto, ne emana una sulfurea esalazione infernale che il commissario ventilerà riuscendo, o quasi, a fare giustizia.

      Guido Pagliarino

      Guido Pagliarino

      IL MOSTRO A TRE BRACCIA

      Racconto lungo

      I

      Vittorio D'Aiazzo se n'era arrivato in Questura radioso.

      Era il 20 maggio del 1959, nostro ultimo giorno alla Squadra Mobile di Genova. Da tempo non vedevo il commissario così raggiante. Da quando sua moglie era fuggita con un altro, sul volto dell'amico non c'era stata che tristezza; ma finalmente avrebbe lasciato la città e l'appartamento che gli rammentavano ogni giorno "la traditrice", della quale era ancora cotto come un pollo arrosto: nessun dubbio che la sua richiesta di trasferimento a Torino avesse avuto il fine di distrarsene.

      Anch’io stavo per partire, con lui. M'aveva chiesto tempo prima se volessi seguirlo e avevo senz’altro presentato domanda: la città di destinazione era la mia. Per me, Ranieri Velli detto Ran, vice brigadiere e, nel poco tempo libero, poeta, era stata un'offerta da cogliere senz'altro, per la nostra buona amicizia e perché erano ancor vivi i miei genitori, ormai non più in piena salute, e avrei potuto aiutarli. Figlio unico, mio padre e mia madre erano i miei soli legami familiari: tutti gli altri parenti erano morti durante la guerra, chi al fronte, chi sotto le bombe, chi durante la lotta di Liberazione. Li avevo delusi, i miei: con molti sacrifici avevano sperato di farmi ingegnere e occuparmi in quella stessa FIAT in cui erano stati operai; ma io odiavo la matematica. Dopo studi incompiuti al liceo scientifico, ero entrato in Polizia, che allora si chiamava ancora ufficialmente Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza. Anche parte del pubblico diceva di noi le guardie, non gli agenti: "Badi, sa? che chiamo le guardie!" M’ero trovato quasi immediatamente agli ordini di Vittorio. Credo fosse diventato mio amico anche perché gli avevo salvato la pelle durante un servizio di scorta; ma forse, più ancora, per il grande amore che portava come me alla poesia: un’amicizia che avevo ricambiato immediatamente, avendolo sentito uomo di grande cuore; e certo per amicizia aveva voluto che lo seguissi a Torino; anzi, avevo pensato che avesse chiesto proprio quella destinazione perché sapeva essere la mia città e conosceva la solitudine dei miei genitori; peraltro sapevo che non gl'importava particolarmente della sede di destinazione, purché fosse capoluogo e non si trattasse di Napoli, la sua città, anche se l'amava moltissimo: avevo saputo da altri della Questura che, nel 1943, Vittorio era stato uno dei patrioti combattenti durante quelle Quattro Giornate di Napoli in cui la città s'era rivoltata contro l'occupante tedesco riuscendo a liberarsi da sola prima dell'arrivo degli Alleati. Lui aveva però sempre evitato di tornarvi, a causa di passati contrasti con un famigliare originati, diceva, "da abbietti motivi d'eredità"; ma una volta s'era lasciato sfuggire che lo sapeva coinvolto in traffici non chiari. Avevo supposto che non volesse prestar servizio a Napoli per non trovarsi in imbarazzo e forse, un giorno, dover addirittura arrestare quel parente. Vittorio aveva allora quarant’anni. Si presentava come uomo piccolino e muscoloso, con una gran testa di capelli ricci neri. Eravamo assai diversi: io, biondo per chi sa quale antico antenato celtico, ero alto quasi un metro e novanta; insieme facevamo il classico il. Anche le nostre idee erano molto differenti, lui cattolico praticante e io, come mio padre, repubblicano storico ateo.

      Erano tempi, quelli, che non conoscevano le fotocopiatrici e normalmente ignoravano i computer, ancora rozze enormi macchine di poca memoria a disposizione di assicurazioni, eserciti, alcune grosse imprese; tempi in cui non si sapeva niente del DNA e la nostra Scientifica continuava ad affidarsi alla tradizionale chimica e alle impronte digitali. Gli investigatori scarpinavano, chiedevano notizie alle ancor numerose portinaie e ai vicini di casa, confidavano in un poco di fortuna. Accanto a una criminalità già efferata sopravvivevano tanti piccoli delinquenti normalmente disarmati. La maggior parte degli omicidi era di tipo passionale. Tempo della mia gioventù: avevo appena ventisei anni, in quel 1959.

      Occupavo una scrivania nell'atrio dell’ufficio di Vittorio: quella mattina, non appena m’aveva visto, m’aveva sorriso ampio e, secondo la sua abitudine di ricorrere talvolta al suo napoletano, m’aveva saettato: "T'aggio a dicere 'na bellissima cosa: nun se parte cchiù!"

      Era felice di restare? Possibile che lo conoscessi così male?!

      M’era scoppiato a ridere in faccia: "T'aggio pulcinellato! Si parte, si parte!" e m’aveva mollato un'affettuosa manata sulla spalla, da lasciarmi il livido.

      Era questo lo spirito umoristico del mio caro amico, una pasta d'uomo: una pasta dolce.

      Giunto a Torino, avevo lasciato i bagagli dai miei, nell'alloggio che affittavano in via Giulio, nel centro storico, in una casa non molto distante dalla Questura, vecchia e con bruttissime scale; ma l'appartamento era confortevole perché la mamma l'aveva di molto curato; dall'interno, non lo si sarebbe immaginato in un palazzo ormai quasi cadente. Unico lusso per quei tempi, un frigorifero invece della ghiacciaia; naturalmente un FIAT, a prezzo scontato per dipendenti ed ex dipendenti.

      Non volendo importunare i genitori, avevo deciso che avrei cercato alloggio in una delle stanze per sottufficiali scapoli d'una vicina caserma di corso Valdocco, presso il cui spaccio mia madre, come parente d'un poliziotto, già faceva, a minor costo che nei negozi, la spesa. Lo stesso pomeriggio del mio arrivo avevo chiesto udienza; m'avevano risposto che, al momento, non c'erano posti liberi se non in camerata, pur essendo previsto il trasferimento d'un brigadiere; e m'avevano registrato, per primo, in lista d'attesa. Intanto, i miei s’erano detti felicissimi di ospitarmi, anche per tutta la vita.

      L'amico D'Aiazzo, che già a quel fine era stato tempo prima a Torino, aveva affittato un appartamentino in via Cernaia, a due passi dalla Questura di corso Vinzaglio.

      Il 21 era considerato interamente giorno di viaggio; avevamo preso dunque servizio la mattina seguente il nostro arrivo.

      II

      Era passata una settimana ed era circa mezzogiorno:

      "Ran, tu che sei di qui conosci la zona di Porta Palazzo, no?" m'aveva chiesto D'Aiazzo, dopo aver risposto all'interfono del nostro ufficio.

      "Sì, commissario":


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