Il Mostro A Tre Braccia E I Satanassi Di Torino. Guido Pagliarino

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Il Mostro A Tre Braccia E I Satanassi Di Torino - Guido Pagliarino


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legge. Matrimonio da poveri!"

      Annachiara aveva voluto precisare: "Tanti sacrifici, brigadiere. Dato che molte braccia erano al fronte, Nicola aveva trovato posto da un artigiano, senza contributi, naturalmente, e per poche lire. Io ero stata presa come cameriera della sua signora, soli vitto e alloggio. Quando s’erano accorti ch'ero incinta, avrebbero voluto mandarmi via; poi avevano avuto compassione e…"

      "…no! gli conveniva continuare a sfruttarci": questa volta il tono di voce dell’uomo era adirato.

      "Insomma, la padrona m’aveva aiutata a partorire, lasciando che tenessi con me la bambina invece di farmela affidare a un orfanotrofio. Nicola dormiva sopra una branda in un angolo del laboratorio, io con Mariangela nella soffitta di casa; ma c’era la guerra, di notte era quasi più il tempo in cantina per gli allarmi che quello a letto. L’abbiamo potuta riconoscere come nostra, la bimba, solo dopo il matrimonio. Per le pratiche ci aiutò l’avvocato d’un sindacato, perché c’erano complicazioni, dato che non avevamo denunciato la nascita: s’era basato su cose come la guerra, i bombardamenti e le famiglie divise."

      S'era intromessa ancora la voce del marito: "La guerra era finita appena in tempo, se no finivo soldato."

      "Eravamo stati dall’artigiano ancora per molto, finché nel 1949 avevano preso mio marito nell’industria; e lì, quattro anni fa, gli è successa la disgrazia." Qui Annachiara era venuta al dunque: "Brigadiere, doveva chiedere qualcosa a Mariangela?" e s’era messa senz'altro a sparecchiare: "Mi scusi, lavo subito i piatti e poi me ne vado a dormire, perché oggi è stata una giornata..."

      Sapevo ormai quanto m'interessava, ma per giustificare la mia visita avevo rivolto qualche domanda alla ragazza; e ne avevo avuto una sorpresa.

      "…dunque", avevo chiesto, "cosa sa dirmi, più di preciso, del suo datore di lavoro?"

      "Ch'è... un santo."

      "Addirittura", m’ero meravigliato: "Pare che i suoi colleghi non siano molto d'accordo con lei."

      "Stamattina non ho osato dire niente: loro ce l'hanno con lui semplicemente perché è il padrone, e anche con me perché gli tengo un poco le parti."

      "Lo ha in simpatia?"

      Era rimasta un attimo interdetta, indirizzandomi gli occhi negli occhi; poi aveva abbassato lo sguardo: "Dipende da cosa intende con simpatia."

      La madre, che intanto aveva iniziato a lavare i piatti all'acquaio, s’era bloccata e aveva guardato la ragazza con viso indagatore.

      "Intendo una normale simpatia umana verso le persone ammodo."

      Annachiara era tornata alle sue faccende.

      "Sì, in questo senso sì: è uomo che quando può fa il bene. Ha dato tante di quelle elemosine, sapesse! ed è anche un poeta. Se non avesse addosso quella disgrazia..."

      "Un poeta?"

      "Sì, scrive poesie bellissime: anche su di me. Aspetti, vado a prenderne una."

      Era tornata con un dattiloscritto. Effettivamente si trattava d'un lirica gradevole, in versi sciolti, dove l'autore, castamente, elogiava Mariangela per la sua bontà e la sua intelligenza. Avevo pensato che l'uomo potesse esserne innamorato, ma che mai avesse osato dichiararsi a causa della sua mostruosità. Avevo detto con un buon sorriso: "Insomma, se non fosse per quel suo... difetto, secondo lei sarebbe un buon partito?"

      "Oh, sì!" aveva convenuto, "anche se ha quasi undici anni più di me: ma questo non importerebbe, senza quel… difetto."

      Possibile che Mariangela gli volesse bene? Uno con una simile mostruosità! Forse si vergognava ad ammetterlo, magari anche con sé stessa?

      Penso che il mio sentire trasparisse perché la ragazza era venuta sui miei pensieri: "Non ci si può innamorare di uno come lui ma... si può volergli un po' bene; non so, come... quasi come a un fratello."

      "Capisco." Dunque avevo davanti una brava ragazza, non la sensuale perversa di cui m'aveva soffiato quel viscido d'Alfonso.

      IV

      Il commissario aveva preso a cuore il caso, anche se era secondario: quanto gli avevo detto su Tarcisio l’aveva commosso. Aveva deciso dunque di occuparsi delle indagini di persona: cose che in quei lontani anni potevano ancora succedere, specie se il commissario si chiamava Vittorio D’Aiazzo.

      Aveva telefonato all'ospedale: Tarcisio aveva ripreso conoscenza, miracolosamente, aveva precisato la suora; ma era ancora in prognosi riservatissima e giaceva in stato confusionale. Non potendo ascoltarlo, Vittorio aveva deciso d'interrogare la commessa licenziata: "Magari, prima d'andare a casa vado a farle una visitina. A quest’ora la gente è stanca e si lascia scappare cose."

      Poco prima delle 21 il commissario aveva sonato a Giulia. Si trattava, come m’avrebbe poi detto, d'un alloggetto all'ultimo piano d'un vecchissimo palazzo in corso Vercelli. La donna, sulla trentina, bruna, graziosa nonostante un trucco pesante che le sconciava il viso, era venuta ad aprirgli sorridente, in vestaglietta trasparente e slip rosa, senza reggiseno, tutta profumata d'un'essenza volgare dolciastra, pronunciando, ancor prima di vederlo: "Vieni, caro"; ma il sorriso le era morto non appena aveva visto D'Aiazzo: evidentemente aspettava qualcuno, ma di certo non lui. Vittorio, che nei primi tempi, a Roma, ancora vice commissario, era stato destinato alla Buoncostume, aveva fortemente sospettato che si trattasse d'una prostituta: Giulia arrotondava così i suoi stipendi? Certo è che, non appena il mio amico s’era qualificato, aveva avuto un sussulto. Vittorio l’aveva tranquillizzata, dichiarando ch'era lì soltanto per notizie sul Benvenuto, e la donna un poco s’era confortata, anche se sarebbe rimasta per tutto il tempo in atteggiamento ansioso dando fuggevoli sguardi alla porta, lasciata socchiusa. Non aveva invitato Vittorio ad accomodarsi. S’erano parlati in piedi, nell'ingresso.

      "Vengo per un pestaggio che ha subito stamattina il suo ex datore di lavoro."

      "Io non ne so niente."

      "A proposito di lavoro: ha già trovato un altro posto?"

      "Sì, da una panetteria qui vicino, il giorno stesso che mi licenziai."

      "Un momento: non fu licenziata?"

      "Sì e no: io avevo solo minacciato d'andarmene e lui m'aveva risposto: Faccia come le pare: anzi, visto che lo vuole, se ne vada; tanto, non è all'altezza."

      "Io, questo, lo intendo come un licenziamento."

      "Io no: me ne sono andata con gran sollievo."

      Vittorio s’era fatto più attento: “Perché? Di preciso, cos'era successo?"

      "Un uomo impossibile, commissario! Un rimprovero dietro l'altro. L'ultima volta s'era inventato ch'ero stata distratta durante la vendita d'un tavolo e che per questo il cliente non aveva comperato. Si figuri un po': un mobile orrendo!"

      "Comunque il principale non era soddisfatto di lei, no?"

      "Non lo era di nessuno. Colpa della sua... menomazione. Lei sa che..."

      "…ne so qualcosa. Lei, di preciso, cosa ne sa?"

      "Un giorno, ero appena stata assunta, venne a visitarlo una suora del vicino Istituto della Carità Cristiana, suor Marisa mi pare, un'anziana che lo aveva allevato da bambino là dentro. Sa che ci tengono anche le persone mostruose, no?"

      "Sì, sono sante suore."

      "Non ne dubito. Anche un po' pettegole, però; almeno quella: poiché il padrone era fuori, ma sarebbe rientrato di lì a poco, lei lo attese e, intanto, si lasciò scappare, tutta sorridente, notizie su di lui."

      "Cioè?"

      "Pare che la sua mostruosità venga dall'unione di due fratelli, due gemelli siamesi. La suora disse che dell'altro erano nati, uniti in modo inscindibile al corpo di lui, solo un braccio e un pezzetto


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