Il ritorno dell’Agente Zero . Джек Марс

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Il ritorno dell’Agente Zero  - Джек Марс


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di C4 nella bomba avrebbe abbattuto le pareti del palazzo e l’avrebbe schiacciato, se prima non fosse stato incenerito.

      Ieri il mio problema più grosso era mantenere sveglia l’attenzione dei miei studenti per novanta minuti. In quel momento stringeva una bomba in mano cercando di sfuggire a dei terroristi russi.

      Concentrati. Raggiunse l’angolo dell’edificio e vi sbirciò dietro, rimanendo il più possibile nelle ombre. C’era la sagoma di un uomo, con una pistola in pugno, che faceva la guardai alla facciata orientale.

      Reid si accertò di avere una buona presa sulla levetta. Puoi farcela. Poi emerse in piena vista. L’uomo si voltò su se stesso e fece per alzare la pistola.

      “Ehi,” disse. Sollevò anche lui la mano, e non quella con cui stringeva la pistola, ma l’altra. “Sai che cosa è questo?”

      L’uomo si fermò e reclinò lievemente la testa. Poi i suoi occhi si sgranarono terrorizzati tanto che Reid riuscì a vederne il bianco anche sotto la luce della luna. “Interruttore,” borbottò l’uomo. Il suo sguardo andò dalla levetta all’edificio e poi da capo, sembrando arrivare alla stessa conclusione raggiunta da Reid: se lui avesse rilasciato l’interruttore di sicurezza sarebbero morti entrambi all’istante.

      Il lavoratore abbandonò il suo piano di sparare a Reid e invece corse verso la parte anteriore dell’edificio. Reid lo seguì in fretta. Udì delle urla in arabo: “Interruttore! Ha l’interruttore!”

      Girò l’angolo che dava sulla facciata dell’impianto con l’AK puntato in avanti, il calcio appoggiato nell’incavo del gomito, e la mano con cui stringeva l’interruttore della bomba alzata sopra la testa. Il lavoratore in fuga non si era fermato; aveva continuato a correre su per la strada sterrata che portava via dall’edificio, gridando fino a perdere la voce. Gli altri due lavoratori si erano avvicinati alla porta principale, apparentemente pronti a entrare per finire Reid. Lo fissarono sbalorditi quando emerse da dietro l’angolo.

      Reid studiò rapidamente la scena. I due uomini avevano pistole, delle Sig Sauer P365, con un caricatore da tredici colpi con calci allungati, ma nessuno la stava puntando. Come aveva immaginato, Otets era scappato dalla porta principale ed era, in quel momento, diretto verso il SUV, zoppicando e tenendosi la gamba ferita, sostenuto per una spalla da un uomo basso e in carne con un cappello nero, l’autista, immaginò Reid.

      “Pistole a terra,” ordinò lui. “O faccio saltare tutto in aria.”

      I lavoratori appoggiarono con attenzione le armi a terra. Reid sentì urla in lontananza, altre voci. Altre ancora venivano dalla direzione dell’antico palazzo. Probabilmente la donna russa aveva fatto una soffiata.

      “Correte,” disse loro. “Vai a dirgli cosa sta per succedere.”

      I due uomini non se lo fecero dire due volte. Scattarono in una corsa nella stessa direzione presa dal loro collega.

      Reid riportò la sua attenzione sull’autista, che aiutava il capo ferito ad avanzare. “Fermo!” gridò.

      “Non osare!” ruggì Otets in russo.

      L’autista esitò. Reid lasciò cadere l’AK ed estrasse la Glock dalla tasca della giacca. Avevano percorso metà della strada fino all’auto. Sono circa venti metri. Facile.

      Avanzò di qualche passo e gridò: “Non credo di aver mai sparato con una pistola prima di oggi. E invece a quanto pare sono un ottimo tiratore.”

      L’autista era un uomo ragionevole, o forse un codardo, o magari entrambi. Lasciò Otets, facendo cadere l’uomo a terra senza tante cerimonie.

      “Le chiavi,” ordinò lui. “Mettile a terra.”

      Le mani dell’autista tremavano mentre prendeva le chiavi del SUV dalla tasca interna della giacca. Gliele gettò ai piedi.

      Reid gli fece cenno con la canna della pistola. “Vai.”

      L’autista corse via. Il cappello nero gli volò via dalla testa ma lui non ci fece caso.

      “Codardo!” sibilò in russo Otets.

      Per prima cosa Reid recuperò le chiavi, poi si fermò davanti a Otets. Le voci in lontananza si stavano avvicinando. Il palazzo era a mezzo miglio di distanza; alla donna russa sarebbero serviti quattro minuti per raggiungerlo a piedi, e poi ci sarebbe voluto qualche altro minuto agli uomini per arrivare fino lì. Immaginò meno di due minuti.

      “Alzati.”

      Otets gli sputò sulle scarpe in risposta.

      “Fai come preferisci.” Reid si mise la Glock in tasca, afferrò Otets per il retro della giacca e lo tirò fisicamente verso il SUV. Il russo gridò per il dolore, mentre la sua gamba ferita veniva trascinata sulla sterrata.

      “Entra,” gli ordinò, “o ti sparo nell’altra gamba.”

      Otets borbottò sotto voce, sibilando per il male, ma salì in auto. Reid chiuse la porta, girò rapidamente intorno all’auto, e si mise dietro il volante. Nella mano sinistra stringeva ancora l’interruttore della bomba.

      Avviò l’auto e pigiò il pedale dell’acceleratore. Le gomme rotearono, sollevando la ghiaia e la terra sotto di esse, e poi il veicolo scattò in avanti con un sobbalzo. Non appena partì sulla stretta strada d’accesso, esplosero degli spari. Il lato del passeggero fu crivellato di colpi, accompagnati da una serie di tonfi violenti. Sul finestrino, appena a destra della testa di Otets, si aprì una ragnatela di vetro incrinato, ma resse.

      “Idioti!” strillò Otets. “Smettetela di sparare!”

      Vetro anti-proiettile, pensò Reid. Certo che lo è. Ma sapeva che non avrebbe resistito a lungo. Premette l’acceleratore e il SUV sobbalzò di nuovo, sfrecciando con un rombo davanti a tre uomini sul ciglio della strada che sparavano verso l’auto. Reid abbassò il finestrino mentre superavano i due operai che erano stati intenti a costruire una bomba, che correvano per le loro vite.

      Poi gettò l’interruttore fuori dall’auto.

      L’esplosione scombussolò il SUV, persino a quella distanza. Non udì la detonazione, quanto la percepì fisicamente, nel profondo del suo corpo, fino alle interiora. Un’occhiata nello specchietto retrovisore rivelò solo un’intensa luce gialla, come se stesse fissando direttamente il sole. Puntini luminosi gli offuscarono la vista per un momento e si costrinse a concentrarsi sulla strada. Una palla di fuoco arancione si alzò nel cielo, circondata da un immenso pennacchio di fumo nero.

      Otets emise un lungo sospiro tremante. “Non hai idea di quello che hai appena fatto,” disse a bassa voce. “Sei un uomo morto, agente.”

      Reid non rispose. Sapeva benissimo cosa aveva fatto: aveva distrutto una quantità significativa di prove per qualsiasi caso avrebbe potuto essere aperto contro Otets non appena lo avesse portato alle autorità. Ma il criminale si sbagliava, non era un uomo morto, non ancora per lo meno, e la bomba lo aveva aiutato a scappare.

      Fino a quel punto.

      Davanti a lui apparve il palazzo antico, ma non ebbe il modo di fermarsi ad apprezzarne l'architettura. Tenne gli occhi diritti e lo sorpassò, con il SUV che sobbalzava per le buche nella strada.

      Una luce nello specchietto attirò la sua attenzione. Due paia di luci entrarono nel suo campo visivo, uscendo dal vialetto del palazzo. Erano molto basse e lui riusciva a sentire il fischio acuto dei motori sopra il rombo del proprio. Auto sportive. Premette di nuovo il piede sull’acceleratore. Sarebbero state più veloci di lui, ma il SUV era meglio equipaggiato per tollerare la strada dissestata.

      Nuovi spari esplosero in aria e proiettili atterrarono nel parafango posteriore. Reid strinse il volante in entrambe le mani, con le vene in rilievo contro i muscoli tesi. Aveva il controllo. Poteva farcela. Il cancello di ferro non era lontano. Stava facendo i cinquantacinque attraverso il vigneto; se avesse mantenuto quella velocità, sarebbe stata sufficiente per abbattere la cancellata.

      Il SUV ondeggiò violentemente quando un proiettile colpì una gomma di dietro e la fece esplodere. La parte davanti sbandò senza controllo. Reid sterzò istintivamente, digrignando i denti. La parte


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