Il ritorno dell’Agente Zero . Джек Марс
Читать онлайн книгу.due leve sul pannello di controllo. Le macchine ronzarono e poco alla volta si fermarono.
“Vai,” le disse. La donna deglutì e indietreggiò verso l’uscita. “In fretta!” gridò secco lui. “Via di qui!”
“Da,” mormorò lei. Corse verso la pesante porta d’acciaio, la aprì e svanì nella notte al di fuori. La porta si richiuse con un boato.
“E ora, agente?” grugnì Otets in inglese. “Quale è il tuo piano di fuga?”
“Stai zitto.” Reid sollevò la pistola alle doppie porte che davano sull’altra stanza. Perché gli uomini non erano entrati? Non poteva continuare a muoversi senza sapere dove fossero. Se ci fosse stata una porta sul retro nell’impianto, avrebbero potuto essere già fuori ad aspettarlo. Se lo avessero seguito, non sarebbe mai riuscito a mettere Otets sul SUV e ad andarsene senza farsi ammazzare. Lì dentro non c’era la minaccia degli esplosivi, avrebbero potuto sparargli se lo avessero voluto. Avrebbero rischiato di colpire Otets per arrivare a lui? Nervi scossi e una pistola non erano una combinazione ideale per nessuno, nemmeno per il loro capo.
Prima che potesse decidere il da farsi, le potenti luci fluorescenti sopra la sua testa si spensero. In un istante finirono immersi nell’oscurità.
CAPITOLO OTTO
Reid non vedeva niente. Non c’erano finestre nell’impianto. I lavoratori nella stanza vicina dovevano aver staccato i contatori perché persino i rumori dei macchinari rallentarono fino a spegnersi.
Raggiunse rapidamente Otets al buio e afferrò il colletto del russo prima che potesse scappare. Otets emise un verso strangolato quando Reid lo tirò all’indietro. Allo stesso momento, si accese la luce rossa d’emergenza, una semplice lampadina che spuntava dal muro sopra la porta. Riempì la stanza di un vago e inquietante chiarore.
“Questi uomini non sono degli sciocchi,” disse piano Otets. “Non uscirai vivo di qui.”
Rifletté furiosamente. Doveva sapere dove erano, o ancora meglio, doveva far sì che andassero da lui.
Ma come?
È semplice. Sai che cosa fare. Smettila di opporti.
Reid prese un profondo respiro con il naso, e fece l’unica cosa che aveva senso in quel momento.
Sparò a Otets.
La secca esplosione della Beretta riecheggiò nella stanza altrimenti silenziosa. Otets gridò di dolore. Le sue mani volarono a stringere la coscia sinistra, dove il proiettile lo aveva appena sfiorato, facendolo sanguinare copiosamente. Sibilò una lunga litania furibonda di imprecazioni in russo.
Reid lo afferrò di nuovo per il colletto e lo tirò all’indietro, quasi facendolo cadere, costringendolo a chinarsi dietro il nastro trasportatore della macchina per l’imbottigliamento. Aspettò. Se gli uomini fossero ancora stati dentro, avrebbero di certo sentito lo sparo e sarebbero arrivati di corsa. Se non fosse venuto nessuno, erano da qualche parte fuori, in sua attesa.
Ebbe la sua risposta qualche secondo più tardi. Le doppie porte furono aperte con un calcio dall’altro lato, tanto forte da mandarle a sbattere contro il muro dietro di esse. Il primo ad attraversarle fu l’uomo con l’AK, muovendo la canna dell’arma in grandi archi, da una parte all’altra della stanza. Altri due uomini erano subito dietro di lui, entrambi armati di pistole.
Otets gemette per il dolore e si strinse forte la gamba. I suoi lo udirono, girarono l’angolo creato dalla macchina per l’imbottigliamento con le armi alzate e trovarono il loro capo seduto a terra, che sibilava tra i denti per la ferita alla coscia.
Reid, invece, non era lì.
Era corso rapidamente verso l’altro lato del macchinario, rimanendo abbassato. Si era infilato la Beretta in tasca e afferrato una bottiglia vuota dal nastro. Prima che potessero girarsi, abbatté la bottiglia sulla testa del lavoratore più vicino, un uomo mediorientale, e poi infilò il collo affilato e frastagliato nella gola del secondo. Sangue caldo gli colò sulle mani mentre l’uomo gorgogliava e cadeva a terra.
Uno.
L’uomo africano con l’AK-47 si girò, ma non fu abbastanza veloce. Reid usò l’avambraccio per spingere di lato la canna, mentre una salva di proiettili riempiva l’aria. Avanzò con la Glock, la spinse sotto il mento dell’uomo e premette il grilletto.
Due.
Un altro sparo finì il primo terrorista—dato che era ciò con cui chiaramente stava avendo a che fare, o così decise—ancora steso a terra privo di sensi.
Tre.
Reid respirava rapidamente, e cercava di calmare i battiti del suo cuore. Non aveva tempo di essere disgustato da quello che aveva fatto, né voleva soffermarsi a pensarci. Era come se il professore Lawson fosse andato in shock, e l’altra parte avesse preso del tutto il sopravvento.
Movimenti. Da destra.
Otets era emerso a gattoni da dietro la macchina e stava cercando di afferrare l’AK. Reid si girò rapidamente e lo calciò nello stomaco. La forza del colpo fece rotolare via il russo, che si tenne il fianco gemendo.
Reid sollevò l’AK. Quanti colpi erano stati esplosi? Cinque? Sei? Aveva un caricatore da trentadue proiettili. Se fosse stato pieno, aveva ancora ventisei colpi.
“Stai giù,” intimò a Otets. Poi, con grande sorpresa del russo, Reid lo lasciò lì e tornò indietro nell’altra parte dell’impianto.
La stanza dove si fabbricavano esplosivi era illuminata dalla stessa fioca luce rossa della lampadina d’emergenza. Reid aprì la porta con un calcio e immediatamente si abbassò su un ginocchio, un caso qualcuno stesse puntando una pistola alla porta, per controllare a destra e a sinistra della stanza. Non c’era nessuno dentro, che significava che doveva esserci una porta sul retro. La trovò in fretta, una porta d’acciaio di sicurezza dietro le scale e nel muro a sud. Probabilmente si apriva solo da dentro.
Gli altri tre erano là fuori, da qualche parte. Era un rischio: non aveva modo per sapere se lo stavano aspettando proprio dall’altra parte della porta, o se erano andati davanti all’edificio. Gli serviva un modo per proteggersi.
Dopo tutto, qui si costruiscono bombe…
Nell’angolo opposto della sala, oltre un nastro trasportatore, trovò una lunga cassetta di legno delle dimensioni di una vara e piena di polistirolo da imballaggio. Vi frugò in mezzo fino a quando non mise mano su qualcosa di solido e lo tirò fuori. Era una scatola di plastica opaca nera, e sapeva già che cosa vi avrebbe trovato dentro.
La appoggiò sul tavolo con attenzione e l’aprì. Con dispiacere piuttosto che con sorpresa, l’aveva riconosciuta come una valigetta per bombe, approntata con un timer ma che poteva essere bypassato con un interruttore apposito, che fungeva da fail-safe.
Il sudore gli imperlò la fronte. Lo sto facendo davvero?
Nuove visioni gli apparvero nella mente, di attentatori afghani a cui mancavano dita e arti interi per colpa di esplosivi mal costruiti. Edifici in fiamme con una sola mossa sbagliata, un solo cavo sconnesso.
Che altra scelta hai? O questo, o ti fai sparare.
L’interruttore del fail-safe era un piccolo rettangolo verde della dimensione di un coltellino svizzero, con una levetta su un lato. Lo sollevò nella mano sinistra e trattenne il fiato.
Poi lo premette.
Non successe nulla. Era un buon segno.
Si accertò di tenere la levetta chiusa nel pugno (perché rilasciandola avrebbe fatto detonare immediatamente la bomba) e impostò il timer con venti minuti di tempo, ma non gli sarebbe servito così tanto. Poi sollevò l’AK nella mano destra e si levò di lì.
Sussultò; la porta di sicurezza sul retro scricchiolò sui cardini quando l’aprì. Saltò fuori nel buio con l’AK sollevato. Non c’era nessuno lì, né dietro l’edificio, ma doveva aver sentito lo scricchiolio rivelatore della porta.
La sua gola era secca e il cuore gli batteva come un tamburo,