Il ritorno dell’Agente Zero . Джек Марс

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Il ritorno dell’Agente Zero  - Джек Марс


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Per quel che ne sai tu, potrei essere io il capo. La mente dietro il piano criminale!” Sollevò entrambe le mani in un gesto plateale e rise di nuovo.

      Reid sogghignò. “Non credo. Penso che tu sia nella mia stessa situazione, un messaggero, portatore di segreti, che si incontra per scambiare notizie in bar di quart’ordine.” Tattica di interrogatorio: mettiti al loro stesso livello. Yuri era chiaramente un poliglotta e non sembrava avere lo stesso atteggiamento temprato dei suoi rapitori. Ma anche se era di basso livello, sapeva più di Reid. “Che ne dici di fare un patto? Tu mi dici quello che sai, e io di dico quello che so.” Abbassò la voce in un sussurro. “E credimi, le mie informazioni ti interessano.”

      Yuri si accarezzò il mento ruvido pensieroso. “Mi piaci, Ben. Che è, come si dice, uhm, un contrasto, perché di solito gli americani mi danno la nausea.” Sorrise. “Purtroppo per te, non posso dirti quello che non so.”

      “Allora indicami chi può farlo.” Le parole uscirono dalla sua bocca senza neanche passare per il cervello, direttamente dalla gola. La parte più logica di Reid (o più appropriatamente, la parte Lawson di lui) gridò in protesta. Che cosa stai facendo?! Fatti dire quello che sa ed esci da qui!

      “Vorresti venire a fare un giro in auto con me?” Gli occhi di Yuri lampeggiarono. “Ti porterò a vedere il mio capo. Lì potrai dirgli quello che sai.”

      Reid esitò. Sapeva che non avrebbe dovuto. Sapeva che non voleva farlo. Ma c’era quel bizzarro senso di obbligo, e quella volontà ferrea in fondo alla sua mente che continuava a dirgli: Rilassati. Aveva una pistola. Aveva le competenze. Era arrivato fino a quel punto e a giudicare da quello che aveva imparato, si trattava di un affare più grosso di qualche uomo iraniano in uno scantinato di Parigi. C’era un piano, il coinvolgimento della CIA, ed era ovvio che lo scopo finale era la morte di molte persone.

      Annuì seccamente, a denti stretti.

      “Fantastico,” Yuri scolò il suo bicchiere e si alzò, continuando a tenere il gomito sinistro contro il corpo. “Au revoir.” Fece un cenno di saluto al barista. Poi il serbo lo guidò fino al retro del Féline, attraverso una piccola cucina lurida, e fuori da una porta d’acciaio che dava su un vicolo tutto in ciottoli.

      Reid lo seguì nella notte, sorpreso che fuori si fosse fatto tanto buio mentre era nel bar. All’imbocco del vicolo c’era un SUV nero, in sosta, con i finestrini scuri quanto la sua vernice. La porta sul retro si aprì prima ancora che Yuri lo raggiungesse, e ne uscirono due scagnozzi. Reid non avrebbe saputo come altro definirli; entrambi avevano le spalle larghe, un’aria imponente e non facevano nulla per nascondere le pistole automatiche TEC-9 che pendevano dalle fondine sotto le loro ascelle.

      “Calmatevi, amici miei,” intervenne Yuri. “Questo è Ben. Lo portiamo a vedere Otets.”

      Otets. In russo il “padre”. O, a livello più tecnico, il “creatore”.

      “Vieni,” gli disse amichevolmente Yuri. Batté una mano sulla spalla di Reid. “Sarà un viaggio piacevole. Beviamo un po’ di champagne. Vieni.”

      Le gambe di Reid non volevano funzionare. Era pericoloso, troppo pericoloso. Se fosse salito in auto con quegli uomini e loro avessero scoperto chi era, o anche che non era chi aveva detto di essere, sarebbe stato un uomo morto. Le sue figlie sarebbero rimaste orfane, e probabilmente non avrebbero mai saputo che ne era stato di lui.

      Ma che altra scelta aveva? Non poteva dire che aveva cambiato idea all’improvviso, sarebbe stato sospetto. Aveva già superato il punto di non ritorno seguendo Yuri fino a lì. E se avesse saputo mantenere la finzione abbastanza a lungo, avrebbe trovato la fonte e magari anche scoperto che cosa stava succedendo nella sua stessa testa.

      Fece un passo verso il SUV.

      “Ah! Un momento, por favor.” Yuri agitò un dito verso la sua muscolosa scorta. Uno dei due gorilla costrinse Reid a sollevare le braccia sui fianchi, mentre l’altro lo perquisiva. Prima trovò la Beretta, infilata dietro i pantaloni. Poi infilò due dita nelle sue tasche e ne estrasse la mazzetta di euro e il telefono usa e getta, per tenderli verso Yuri.

      “Questi puoi tenerli.” Il serbo gli restituì il denaro. “Questi invece, li teniamo noi. Sicurezza. Tu capisci.” Yuri fece svanire cellulare e pistola in una tasca interna della giacca di velluto, e per un brevissimo istante Reid vide il calcio marrone di un’arma.

      “Capisco,” rispose. Così era disarmato e senza alcun modo di chiamare aiuto se gli fosse servito. Dovrei scappare, pensò. Iniziare a correre senza guardarmi indietro…

      Uno dei due scagnozzi lo costrinse a chinare la testa e ad avanzare nel retro del SUV. Entrambi salirono dopo di lui e Yuri li seguì, chiudendosi la portiera alle spalle. Si sedette accanto a Reid, mentre i gorilla incurvati, praticamente spalla contro spalla, sedevano nei sedili custom rivolti verso di loro, proprio dietro l’autista. Un vetro tinto di nero li separava da sedili davanti dell’auto.

      Uno dei due bussò sul vetro dell’autista con due nocche. “Otets,” disse bruscamente.

      Un secco click segnalò la chiusura delle portiere, e con esso arrivò la realizzazione di quello che Reid aveva fatto. Era salito in auto con tre uomini armati, senza avere alcuna idea di dove stesse andando e ancora di meno chi fosse lui stesso. Ingannare Yuri non era stato particolarmente difficile, ma adesso lo stava portando dal capo…. Avrebbe capito che non era chi diceva di essere? Lottò contro la tentazione di scattare avanti, aprire la porta e balzare giù dall’auto. Non aveva vie di fuga, almeno non al momento. Avrebbe dovuto aspettare che arrivassero alla loro destinazione e sperare di uscirne tutto d’un pezzo.

      Il SUV avanzò nelle strade di Parigi.

      CAPITOLO SEI

      Yuri, che era stato tanto chiacchierone e animato dentro il bar francese, fu stranamente silenzioso durante il viaggio in auto. Aprì un compartimento lungo il sedile e ne estrasse un libro consumato e con la copertina strappata: il Principe di Machiavelli. Il professore dentro Reid avrebbe voluto sbuffare ad alta voce.

      I due scagnozzi seduti davanti a lui rimasero muti, con gli occhi fissi in avanti come se stessero cercando di trapanargli il cranio. Memorizzò rapidamente i loro lineamenti: l’uomo sulla sinistra era rasato, bianco, con scuri baffi a manubrio e occhietti piccoli e scintillanti. Aveva una TEC-9 sotto la spalla e una Glock 27 infilata in una fondina da caviglia. Una cicatrice pallida e frastagliata sopra il sopracciglio sinistro suggeriva un rattoppo grossolano (non troppo diverso da quella che avrebbe avuto Reid, una volta che fosse guarito dal suo intervento con la supercolla). La nazionalità dell’uomo era indistinguibile.

      Il secondo scagnozzo era leggermente più scuro, con una barba folta e incolta e una grossa pancia. La spalla sinistra sembrava leggermente cadente, come se preferisse caricare il peso sul fianco opposto. Anche lui aveva una pistola automatica infilata sotto un braccio, ma nessun’altra arma che Reid riuscisse a vedere.

      Tuttavia aveva notato il marchio sul suo collo. La pelle era rosata e raggrinzita, leggermente rialzata per la bruciatura. Era lo stesso marchio che aveva visto sul gigante arabo nello scantinato. Un qualche genere di glifo, ne era certo, ma non uno che riuscisse a riconoscere. Sembrava che l’uomo con i baffi non l’avesse, anche se la maggior parte del suo collo era nascosta dalla maglietta.

      Neanche Yuri pareva avere il marchio, almeno non dove Reid potesse vederlo. Il colletto della giacca di velluto nero era piuttosto alto. Forse è uno status symbol, pensò. Qualcosa che deve essere guadagnato.

      L’autista diresse il veicolo sull’A4, lasciandosi Parigi alle spalle e dirigendosi a nord-est verso Reims. Le finestre tinte rendevano la notte ancora più buia, una volta usciti dalla Città delle Luci, era difficile per Reid distinguere qualsiasi punto di riferimento. Dovette fare affidamento sui cartelli stradali per sapere dove erano diretti. Il panorama mutò da un luminoso ambiente urbano a una topografia bucolica e rilassata. L’autostrada seguiva le curve gentili del terreno e fattorie si alzavano da ogni lato.

      Dopo un’ora di viaggio in assoluto silenzio, Reid si schiarì la gola. “Ci vuole ancora molto?” chiese.

      Yuri


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