Il ritorno dell’Agente Zero . Джек Марс

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Il ritorno dell’Agente Zero  - Джек Марс


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dolcemente da uno stereo dietro il bancone del bar.

      Reid controllò tutto il posto, da destra a sinistra e poi da capo. Nessuno guardò verso di lui, e di certo nessuno somigliava ai tipi che lo avevano rapito. Si accomodò a un tavolino sul fondo e si sedette guardando verso la porta. Ordinò un caffè, anche se per lo più lo lasciò fumare davanti a sé.

      Un vecchio uomo curvo scese dal suo sgabello e si avviò zoppicando verso i bagni. Reid si scoprì ipnotizzato dal suo movimento e studiò l’uomo. Sulla sessantina. Displasia dell’anca. Dita ingiallite, respiro pesante: un fumatore di sigari. Senza spostare la testa il suo sguardo corse dall’altro lato del bar, dove due uomini dall’aria burbera e in tute da lavoro stavano avendo una conversazione sussurrata ma concitata sullo sport. Operai. Quello sulla sinistra non dorme abbastanza, probabilmente ha dei figli piccoli. L’uomo sulla destra è stato in una rissa di recente, o almeno ha dato un pugno, dato che le sue nocche sono ferite. Senza pensare, si ritrovò a esaminare gli orli dei loro pantaloni, le loro maniche, il modo in cui appoggiavano i gomiti sul tavolo. Qualcuno con una pistola cercherebbe di proteggerla, di nasconderla, anche inconsciamente.

      Reid scosse la testa. Stava diventando paranoico, e quei pensieri persistenti ed estranei non lo stavano aiutando. Poi si ricordò lo strano avvenimento della farmacia, come si fosse ricordato di un posto solo dopo aver detto ad alta voce che gliene serviva uno. Lo studioso dentro di lui intervenne. Forse c’è qualcosa che puoi imparare da questa consapevolezza. Forse invece di combatterla, dovresti provare ad aprirti a essa.

      La cameriera era una giovane donna dall’aria stanca con una gran massa di capelli scuri e arruffati. “Stylo?” le chiese quando gli passò vicino. “Ou crayon?” Penna o matita? Lei infilò una mano in mezzo ai capelli e ne estrasse una penna. “Merci.”

      Spianò un tovagliolo da cocktail e ci appoggiò sopra la punta della penna. Quella non era una nuova abilità di origine sconosciuta, bensì una tecnica del professor Lawson, una che aveva usato molte volte in passato per rafforzare la memoria.

      Ripensò alla conversazione, se così poteva definirla, con i tre rapitori arabi. Cercò di non pensare ai loro occhi morti, al sangue per terra, o alla vaschetta di strumenti affilati per tagliargli di dosso qualsiasi verità credessero che avesse. Invece si concentrò sui dettagli verbali e scrisse il primo nome che gli tornò in mente.

      Poi lo borbottò ad alta voce. “Sceicco Mustafar.”

      Una prigione segreta in Marocco. Un uomo che ha passato tutta la sua vita in mezzo alle ricchezze e al potere, calpestando i meno fortunati di lui e schiacciandoli sotto le sue scarpe, ora è terrorizzato perché sa che potrebbero seppellirlo fino al collo nella sabbia e nessuno avrebbe mai ritrovato le sue ossa.

      “Vi ho detto tutto quello che so!” insiste.

      Come no. “Le mie fonti dicono altrimenti. Dicono che potresti sapere molto di più, ma che forse hai paura delle persone sbagliate. Ecco cosa ti dico, sceicco… il mio amico nella stanza qui vicina?  Si sta innervosendo. Vedi, lui ha questo martello… è una cosetta, davvero, un martello da roccia, come quello che userebbe un geologo? Ma fa meraviglie sulle ossa più piccole, sulle nocche…”

      “Lo giuro!” Lo sceicco si stringe le mani ansioso. Lo riconosci come un segnale. “Ci sono state altre conversazioni sui piani, ma erano in tedesco, in russo… io non le ho capite!”

      “Lo sai, sceicco, un proiettile ha lo stesso suono in ogni lingua.”

      Reid tornò di colpo al fetido baretto. Si sentiva la gola secca. Il ricordo era stato intenso, vivido e lucido come tutti gli altri. Ed era stata la sua voce a parlare, a minacciare con facilità, pronunciando cose che non si sarebbe mai sognato di dire a un’altra persona.

      Piani. Lo sceicco aveva definitivamente detto qualcosa su dei piani. Qualsiasi cosa tremenda stesse sospingendo il suo inconscio, aveva la netta sensazione che ancora non fosse successa.

      Prese un sorso del caffè ormai tiepido per calmare i nervi. “Okay,” disse a se stesso. “Okay.” Durante l’interrogatorio nello scantinato, gli avevano chiesto le identità di altri agenti attivi, e tre nomi gli erano lampeggiati nella mente. Ne scrisse uno, e poi lo lesse ad alta voce. “Morris.”

      Un aeroporto privato a Zagreb. Morris sta correndo di fianco a te. Entrambi avete le pistole in pugno, con la canna puntata verso il basso. Non potete lasciare che i due iraniani raggiungano l’aereo. Morris prende la mira tra una falcata e un’altra e spara due volte. Un colpo arriva a segno a un polpaccio e il primo uomo cade. Tu ti avvicini all’altro, abbattendolo brutalmente al suolo…

      Un altro nome. “Reidigger.”

      Un sorriso giovanile, capelli pettinati accuratamente. Un po’ di pancetta. Il peso non gli sarebbe stato male addosso con qualche centimetro di più d’altezza. Il bersaglio di molti scherzi, ma li sopportava con pazienza.

      Il Ritz a Madrid. Reidigger copre la hall mentre tu abbatti la porta a calci e prendi il terrorista di sorpresa. L’uomo cerca di prendere la pistola sul comò, ma tu sei più veloce. Gli spezzi il polso… Più tardi Reidigger ti dirà che ha sentito il rumore da fuori nel corridoio. Gli ha dato la nausea. Tutti ridono.

      Il caffè ormai era freddo, ma Reid quasi non lo notò. Gli tremavano le dita. Non c’era alcun dubbio: qualsiasi cosa gli stesse succedendo, quelli erano dei ricordi… i suoi ricordi. O quelli di qualcuno. I rapitori, gli avevano tagliato qualcosa dal collo e lo avevano chiamato un soppressore dalla memoria. Non poteva essere vero; quello non era lui. Era qualcun altro. Aveva i ricordi di qualcun altro mescolati ai suoi.

      Reid appoggiò di nuovo la punta della penna al tovagliolo e scrisse l’altro nome. Lo pronunciò ad alta voce: “Johansson.” Una forma gli apparve nella mente. Lunghi capelli biondi, lisci e lucidi. Zigomi rotondi e alti. Labbra piene. Occhi grigi, del colore dell’ardesia. Una visione lampeggiò…

      Milano. Notte. Un albergo. Vino. Maria è seduta sul letto con le gambe incrociate sotto di sé. I primi tre bottoni della camicetta sono aperti. I capelli sono spettinati. Non avevi mai notato quanto fossero lunghe le sue ciglia. Due ore prima l’hai guardata uccidere due uomini in una sparatoria, e ora bevete Sangiovese e mangiate Pecorino toscano. Le vostre ginocchia quasi si toccano. Il suo sguardo incontra il tuo. Nessuno di voi due parla. Lo vedi nei suoi occhi, ma lei sa che non puoi farlo. Ti chiede di Kate…

      Reid sussultò sentendo montare un gran mal di testa, che gli si allargò nel cranio come una nube temporalesca. Allo stesso tempo, la visione si sfocò e svanì. Strinse gli occhi e si premette le tempie per un minuto intero prima che il mal di testa diminuisse.

      Che diavolo è stato quello?

      Per qualche motivo sembrava che il ricordo della donna, Johansson, gli avesse provocato una breve emicrania. Ancora più disturbante, tuttavia, fu la strana sensazione che lo colse mentre il mal di testa gli passava. Era come… desiderio. No, era più di quello, sembrava passione, rinforzata dall’eccitazione e persino dal pericolo.

      Non riuscì a evitare di chiedersi chi fosse la donna, ma poi si riscosse. Non voleva provocarsi un altro mal di testa. Invece appoggiò di nuovo la penna sul tovagliolo, per scrivere l’ultimo nome: Zero. Era in quella maniera che l’aveva chiamato l’interrogatore iraniano. Ma prima che potesse scriverlo o recitarlo, provò una sensazione bizzarra. Gli si rizzarono tutti i peli del collo.

      Qualcuno lo stava guardando.

      Quando alzò lo sguardo, vide un uomo in piedi all’ingresso del Féline, gli occhi puntati su Reid come un falco che stesse dando la caccia a un topo. Gli si gelò il sangue. Lo stava osservando.

      Era quello l’uomo che doveva incontrare, ne era certo. Lo aveva riconosciuto? Gli uomini arabi non sembravano averlo fatto. Che quello sconosciuto stesse aspettando qualcun altro?

      Appoggiò la penna. Lentamente e senza dare nell’occhio, accartocciò il tovagliolo e lo lasciò cadere nella tazzina di caffè mezza piena.

      L’uomo annuì una volta. Lui annuì in risposta.

      Poi lo sconosciuto portò una mano dietro


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