Il ritorno dell’Agente Zero . Джек Марс

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Il ritorno dell’Agente Zero  - Джек Марс


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rimase in silenzio per un lungo momento. Poi disse: “Promettimi che stai bene.”

      Reid sussultò.

      “Papà?”

      “Sì,” rispose forzatamente. “Sto bene. Ti prego, fai quello che ti ho chiesto e vai con la zia Linda. Voglio bene a entrambe, di’ a Sara che te l’ho detto, e abbracciala per me. Vi contatterò non appena potrò.”

      “Aspetta, aspetta,” lo fermò Maya. “Come farai a contattarci se non saprai dove siamo andate?”

      Ci rifletté per un istante. Non poteva chiedere a Ronnie di compromettersi più di così. Non poteva chiamare direttamente le ragazze. E non poteva rischiare di sapere dove fossero, perché avrebbero potute essere usate come merce di scambio contro di lui…

      “Creerò un finto account,” propose Maya, “sotto un altro nome. Tu sai quale è. Io ci entrerò solo dal computer dell’albergo. Se vuoi contattarci, manda un messaggio.”

      Reid capì al volo. Fu colto da un’ondata di orgoglio; era così intelligente, e molto più lucida sotto pressione di quanto avrebbe osato sperare.

      “Papà?”

      “Sì,” disse lui. “Va bene. Prenditi cura di tua sorella. Devo andare…”

      “Anche io ti voglio bene,” rispose Maya.

      Reid chiuse la chiamata. Poi tirò su con il naso. Eccolo di nuovo, l’istinto bruciante di correre a casa da loro, di tenerle al sicuro, di mettere in valigia tutto quello che potevano e andarsene, via lontano…

      Non poteva farlo. Di qualunque cosa si trattasse, chiunque fosse che gli stava dando la caccia, lo avevano trovato una volta. Era stata una fortuna che non volessero anche le sue figlie. Forse non sapevano di loro. La prossima volta, se ci fosse stata, forse non avrebbe avuto tanta fortuna.

      Reid aprì il telefono, ne entrasse la carta SIM e la spezzò in due. Lasciò cadere i pezzi in un tombino. Mentre si incamminava in strada, lasciò la batteria in un cestino del pattume, e le due metà del telefono in altri cestini.

      Sapeva che era genericamente diretto verso Rue de Stalingrad, anche se non aveva idea di che cosa avrebbe fatto una volta che ci fosse arrivato. Il suo cervello gridava di cambiare direzione, di andare ovunque tranne che lì. Ma il sangue freddo che pervadeva il suo subconscio lo spinse ad avanzare.

      I suoi rapitori gli avevano chiesto che cosa sapeva dei loro ‘piani’. I posti di cui gli avevano domandato, Zagreb e Madrid e Teharan, dovevano essere collegati, ed erano chiaramente legati anche agli uomini che lo avevano catturato. Qualunque cosa fossero quelle visioni—ancora si rifiutava di ammettere che fossero altro—c’era in esse la conoscenza di qualcosa che era già successo o che stava per accadere. Una conoscenza che non aveva saputo di possedere. Più ci pensava, più sentiva una certa urgenza sospingerlo dal fondo della sua mente.

      No, era più di quello. Era un obbligo.

      A quanto pareva i suoi rapitori erano stati disposti a ucciderlo per quello che sapeva. E lui aveva la sensazione che se non avesse scoperto di che cosa si trattava e che cosa avrebbe dovuto sapere, molta più gente sarebbe morta.

      “Monsieur.” Reid fu strappato dai suoi pensieri da una donna in carne con uno scialle, che gli toccò gentilmente il braccio. “Sta sanguinando,” disse lei in inglese, e si indicò il sopracciglio.

      “Oh. Merci.” Lui si portò due dita alla fronte. Un piccolo taglietto gli aveva impregnato la benda e una goccia di sangue gli stava colando lungo il viso. “Devo trovare una farmacia,” borbottò ad alta voce.

      Rimase senza fiato quando fu colpito da un pensiero: c’era una farmacia a due isolati di distanza. Non c’era mai entrato, secondi i ricordi della sua memoria infida, ma semplicemente lo sapeva, con la stessa facilità con cui conosceva il percorso per arrivare al Pap’s Deli.

      Gli corse un brivido dalla base della spina dorsale fino al collo. Le altre visioni erano state viscerali, e si erano manifestate tutte in seguito a qualche stimolo esterno, come una visione, suoni e persino odori. Quella volta non c’era stata nessuna visione. Era semplicemente un ricordo, proprio come aveva saputo dove andare davanti a ogni cartello stradale. Lo stesso modo in cui sapeva come caricare una Beretta.

      Prese una decisione prima che il semaforo diventasse verde. Sarebbe andato a quell’incontro e avrebbe ottenuto qualsiasi informazione fosse stato possibile. Poi avrebbe deciso cosa farci, se fare rapporto alle autorità, e scagionarsi riguardo alla morte dei quattro uomini nello scantinato. Lasciare che la polizia facesse il suo mestiere mentre lui tornava a casa dalle sue figlie.

      In farmacia, comprò un tubetto di supercolla, una scatola di cerotti a farfalla, dei tamponi di cotone e un fondotinta del colore del suo incarnato. Portò i suoi acquisti in bagno e chiuse la porta.

      Si tolse le bende che si era messo goffamente all’appartamento e si lavò il sangue incrostato dalle ferite. Sui tagli più piccoli applicò i cerotti a farfalla. Su quelli più profondi, che normalmente avrebbero richiesto dei punti, strinse insieme la pelle e vi depositò una goccia di supercolla, sibilando tra i denti per tutto il tempo. Poi trattenne il fiato per circa trenta secondi. La colla bruciava, ma man mano che si asciugava smise di infastidirlo. Alla fine si passò il fondotinta sul volto, in particolare sulle opere dei suoi sadici ex rapitori. Non era possibile riuscire a mascherare l’occhio gonfio e la mascella livida, ma almeno così meno gente lo avrebbe fissato per la strada.

      L’intero procedimento impiegò mezz’ora, e due volte in quell’arco di tempo dei clienti gli bussarono alla porta (la seconda, una donna aveva gridato in francese che il figlio stava per scoppiare). Entrambe le volte, Reid aveva gridato: “Occupé!”

      Alla fine, quando ebbe concluso, si riguardò allo specchio. Era tutt’altro che perfetto, ma almeno non sembrava che fosse stato brutalizzato in una sala delle torture sotterranea. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a scegliere un fondotinta più scuro, qualcosa che lo avrebbe fatto sembrare straniero. La persona con cui aveva parlato sapeva con chi avrebbe dovuto incontrarsi? Avrebbe riconosciuto chi era, o meglio, chi pensavano che lui fosse? I tre uomini che erano andati a casa sua non erano sembrati molto sicuri, lo avevano persino confrontato con una fotografia.

      “Che cosa sto facendo?” si chiese. Ti stai preparando per un incontro con un pericoloso criminale che probabilmente è un noto terrorista, disse la voce nella sua testa, e non la nuova coscienza invadente, ma la sua, quella di Reid Lawson. Era il suo stesso buon senso, che si prendeva gioco di lui.

      Poi la personalità pacata e sicura di sé, quella appena sotto la superficie, parlò. Andrà tutto bene, gli disse. Non è niente che tu non abbia già fatto. Istintivamente portò la mano al calcio della Beretta infilata dietro ai suoi pantaloni, nascosta dalla nuova giacca. Sai come comportarti.

      Prima di uscire dalla farmacia, comprò qualche altro oggetto: un orologio economico, una bottiglia d’acqua e due tavolette di cioccolato. Fuori sul marciapiede, divorò entrambe le barrette. Non era certo di quanto sangue avesse perso e voleva tenere alti i livelli di zucchero. Scolò l’intera bottiglietta d’acqua e poi chiese l’ora a un passante. Sistemò l’orologio e se lo infilò al polso.

      Erano le sei e mezza. Aveva tutto il tempo per arrivare al luogo d’incontro in anticipo e prepararsi.

*

      Si era quasi fatto buio quando raggiunse l’indirizzo che gli era stato dato per telefono. Il tramonto su Parigi lanciava lunghe ombre sui viali. Rue de Stalingrad 187 corrispondeva a un bar nel decimo arrondissement chiamato Féline, un postaccio con le finestre dipinte di nero e la facciata malmessa. Era in una strada altrimenti popolata da studi d’arte, ristoranti indiani e bar bohémien.

      Reid si fermò con una mano sulla porta. Una volta entrato non sarebbe più potuto tornare indietro. Ancora poteva andarsene. No, decise, invece non poteva. Dove sarebbe andato? A casa, per farsi ritrovare di nuovo? E a vivere con quelle strane visioni nella testa?

      Entrò.

      Le pareti del bar erano dipinte di nero e coperte di poster anni ’50 con donne dal volto severo, portasigarette e silhouette.


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