Il ritorno dell’Agente Zero . Джек Марс

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Il ritorno dell’Agente Zero  - Джек Марс


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i ricordi tornarono, frammentati, come fotogrammi tagliati da una pellicola e lasciati a terra.

      Tre uomini.

      Il telefono delle emergenze.

      Il furgone.

      L’aereo

      E ora…

      Reid si azzardò ad aprire gli occhi. Fu difficile. Gli sembrava che gli avessero incollato insieme le ciglia, ma anche dietro la pelle sottile vedeva una luce accesa e rovente. Ne sentiva il calore sul volto, e distingueva la rete di capillari delle proprie palpebre.

      Strizzò gli occhi. Tutto ciò che vedeva era quella luce crudele, luminosa, bianca e penetrante. Dio, gli faceva male la testa. Cercò di gemere e scoprì, grazie a una nuova scarica di dolore, che anche la mascella gli doleva. Aveva la lingua gonfia e secca, e in bocca c’era un sapore metallico. Sangue.

      I suoi occhi… capì che era stato difficile aprirli perché in effetti era incollati insieme. Il lato della faccia era caldo e appiccicoso. Il sangue gli era colato dalla fronte e negli occhi, senza dubbio per via dei calci che aveva preso sull’aereo.

      Ma riusciva a vedere la luce. Gli avevano tolto la sacca dalla testa. Che fosse o meno un risvolto positivo rimaneva ancora da vedere.

      Mentre si abituava alla luce, cercò invano di muovere le mani. Erano ancora legate, ma non più da manette. Grosse corde ruvide lo tenevano fermo. Anche le sue caviglie erano strette alle gambe della sedia di legno su cui si trovava.

      Dopo poco cominciò a intravedere sagome incerte in mezzo al chiarore. Era in una piccola stanza senza finestre con pareti irregolari di cemento. Era caldo e umido, abbastanza perché il sudore lo solleticasse dietro al collo, nonostante si sentisse il corpo freddo e insensibile.

      Non riusciva ad aprire del tutto l’occhio destro e provarci era doloroso. Doveva aver preso un calcio, o forse i suoi rapitori avevano continuato a picchiarlo mentre era svenuto.

      La luce brillante veniva da una sottile lampada tecnica su una base alta e con le ruote, che era stata sistemata alla sua altezza e puntata verso la sua faccia. La lampadina alogena emetteva una luce intensa. Se c’era qualcos’altro dietro quella lampada, lui non riusciva a vederlo.

      Sussultò quando un secco suono metallico riecheggiò nella stanzetta—il rumore di una serratura che veniva aperta. Cardini cigolarono, ma Reid non vide nessuna porta. Poi si richiuse con un frastuono discordante.

      Una figura si frappose tra lui e la luce, incombendo su di lui e mettendolo in ombra. Reid tremò e non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo.

      “Chi sei tu?” La voce era maschile, leggermente più acuta dei suoi precedenti aggressori ma colorata dallo stesso accento mediorientale.

      Reid aprì la bocca per parlare, per dire che non era altro che un professore di storia e che avevano preso la persona sbagliata, ma si ricordò che l'ultima volta che ci aveva provato era stato preso a calci fino a svenire. Gli sfuggì solo un gemito.

      L’uomo sospirò e si spostò dalla luce. Qualcosa fu trascinato sul pavimento di cemento, le gambe di una sedia. Lo sconosciuto spostò la lampada lontano dal volto di Reid e si sedette davanti a lui, tanto vicino che le loro ginocchia quasi si toccavano.

      Reid alzò lentamente lo sguardo. L’uomo era giovane, doveva avere al massimo trent’anni, con la pelle scura e un’ordinata barba nera. Portava occhiali rotondi dalla montatura argentata e una kufi bianca, un cappello tondo senza tesa.

      Dentro Reid sbocciò la speranza. Il giovane uomo sembrava un intellettuale, non come i selvaggi che lo avevano attaccato e strappato da casa sua. Forse avrebbe potuto negoziare con lui. Forse era al comando…

      “Iniziamo dalle cose semplici,” disse l’uomo. La sua voce era bassa e tranquilla, parlava come uno psicologo avrebbe potuto rivolgersi a un paziente. “Come ti chiami?”

      “Io… Lawson.” Al primo tentativo quasi non riuscì a parlare. Tossì, e fu vagamente allarmato di vedere gocce di sangue colpire il pavimento. L’uomo di fronte a lui arricciò disgustato il naso. “Mi chiamo… Reid Lawson.” Perché continuavano a chiedere il suo nome? Glielo aveva già detto. Aveva fatto un torto a qualcuno non volendo?

      L'uomo sospirò piano, dentro e fuori dal naso. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse in avanti, abbassando ancora di più la voce. “Ci sono molte persone che vorrebbero essere in questa stanza, al momento. Fortunatamente per te, siamo solo tu e io. Però se non sei sincero con me non ho altra scelta se non invitare… gli altri. E loro tendono ad avere poca compassione.” Si raddrizzò. “Quindi te lo chiedo di nuovo. Come… ti… chiami… ?”

      Come poteva convincerli che era chi diceva di essere? I battiti del cuore di Reid presero velocità mentre la realizzazione lo colpiva come una mazzata alla testa. Stava rischiando di morire in quella stanza. “Ti sto dicendo la verità!” insistette. All’improvviso le parole sgorgarono dalle sue labbra, come acqua che avesse sfondato una diga. “Mi chiamo Reid Lawson. Ti prego, dimmi perché sono qui. Non so che cosa sta succedendo. Non ho fatto niente…”

      L’uomo schiaffeggiò Reid sulla bocca. La sua testa scattò di lato e lui ansimò per il dolore del labbro appena spaccato.

      “Il tuo nome.” L’uomo si pulì il sangue dall’anello d’oro che aveva alla mano.

      “Te l’ho detto,” balbettò. “Mi chiamo Lawson.” Soffocò un singhiozzo. “Ti prego.”

      Alzò lo sguardo, spaventato. Il suo interrogatore lo fissò a sua volta, impassibile e freddo. “Il tuo nome.”

      “Reid Lawson!” Reid sentì il calore salirgli sulle guance, mentre il dolore si trasformava in rabbia. Non sapeva che altro dire, che cosa volessero che dicesse. “Lawson! È Lawson! Potete controllare la mia…” No, non potevano controllare la sua carta d’identità. Non aveva avuto con sé il portafoglio quanto i tre uomini lo avevano preso.

      Il suo interrogatore schioccò la lingua in segno di disapprovazione e poi scagliò un pugno ossuto al centro del plesso solare di Reid. Di nuovo il professore si ritrovò senza fiato. Per un minuto intero non riuscì a respirare; e alla fine boccheggiò ansimante. Gli bruciava il petto. Gli colava il sudore sulle guance e gli bruciava sul labbro spaccato. La testa gli pendeva senza forza, il mento appoggiato sul petto, mentre lottava contro un’ondata di nausea.

      “Il tuo nome,” ripeté con calma l’interrogatore.

      “Io… non so che cosa vuoi che ti dica,” sussurrò Reid. “Non so che cosa stai cercando. Ma non sono io.” Stava impazzendo? Era certo di non aver fatto niente per meritarsi un trattamento di quel tipo.

      L’uomo con la kufi si sporse di nuovo in avanti, prendendo gentilmente il mento di Reid tra due dita. Gli sollevò il capo, costringendolo a guardarlo negli occhi. Le sue labbra sottili si stesero in un sorrisetto.

      “Amico mio,” disse. “Le cose andranno molto molto peggio, prima di migliorare.”

      Reid deglutì e sentì il sapore del rame in fondo alla gola. Sapeva che il sangue era un emetico; bastavano settecento grammi per far vomitare, e lui si sentiva già nauseato e stordito. “Ascoltami,” lo implorò. La sua voce suonò tremante e timida. “Mi chiamo Reid Lawson. Sono un professore di storia europea alla Columbia University. Sono vedovo e ho due…” Si interruppe. Fino a quel momento i suoi rapitori non avevano dato nessuna indicazione di sapere delle sue figlie. “Se non è questo che state cercando, non posso aiutarvi. Ti prego. È la verità.”

      L’interrogatore lo fissò per un lungo momento, senza battere ciglio, poi disse seccamente qualcosa in arabo. Reid sussultò a quello scatto improvviso.

      La serratura si aprì di nuovo. Oltre la spalla dell’uomo, Reid vide apparire la forma della porta. Sembrava di qualche tipo di metallo, ferro o acciaio.

      La stanza, capì, era stata costruita per essere una cella di prigione.

      Una sagoma apparve all’ingresso. L’interrogatore disse qualcos’altro nella sua lingua nativa, e la sagoma svanì. Sogghignò verso Reid. “Lo vedremo,” disse semplicemente.

      Accompagnato


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