I Robinson italiani. Emilio Salgari

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I Robinson italiani - Emilio Salgari


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      Vegliava da due ore, quando udì, a non molta distanza, un grido rauco che rassomigliava ad un miagolìo ma infinitamente più potente di quello che emettono i gatti.

      Il marinaio s'alzò di scatto gettando all'intorno uno sguardo inquieto. Quella nota gutturale, breve, l'aveva udita ancora: era il grido della tigre.

      — Mille terremoti!... — esclamò, impallidendo. — Ecco un vicino molto pericoloso, che starebbe bene a casa di messer Belzebù!... Se si avvicina, non so se la nostra scure ed i nostri coltelli potrebbero impedirgli di divorarci!... Avessimo almeno delle lancie!... To'!... E perchè no? La cosa mi sembra possibile! —

      I suoi sguardi erano caduti sulla legna raccolta che doveva alimentare il fuoco, in mezzo alla quale aveva scorto due giovani bambù lunghi due o tre metri, canne leggiere bensì, ma d'una resistenza a tutta prova e che gl'indiani ed i giavanesi adoperano per fabbricare le aste delle loro picche.

      — Ecco quanto mi occorre per avere una buona arma superiore alla scure, — disse.

      Afferrò una di quelle canne, la spogliò delle foglie, estrasse da una tasca una funicella ed in pochi istanti legò solidamente il suo coltello all'estremità di quell'asta.

      Aveva appena terminato, quando vide uscire da una folta macchia un'ombra, la quale s'avanzava verso il fuoco con grande lentezza, mostrando due occhi che avevano dei bagliori verdastri. S'alzava, si abbassava fino a toccare col ventre la terra, poi s'arrestava come se fosse indecisa o fiutasse l'aria, poi si stirava come un gatto e agitava la sua lunga e sottile coda.

      Pareva però che non avesse molta fretta ad avvicinarsi al campo, tenuta forse in rispetto dal fuoco, il quale proiettava sulle piante vicine dei riflessi sanguigni.

      — Una tigre od un grosso gatto selvatico? — si chiese il marinaio, le cui inquietudini aumentavano. — Diavolo! La cosa diventa seria e mi pare che valga la pena di tirare le gambe ai compagni. —

      Scivolò rapidamente sotto la tenda e scosse vigorosamente Albani ed il mozzo, dicendo:

      — Presto, uscite!... Un grave pericolo ci minaccia.

      — Chi?... Cosa succede? — chiese l'ex-uomo di mare, stropicciandosi vigorosamente gli occhi.

      — Credo che si tratti d'una tigre, signore.

      — D'una tigre?... Usciamo! —

      Quando si trovarono all'aperto, videro l'animale tranquillamente accovacciato a trenta passi dal fuoco.

      Non era più possibile ingannarsi, trovandosi in piena luce: era una vera tigre; ma di razza malese, più tozza, più bassa di zampe e meno elegante di quelle reali del Bengala.

      Quelle dell'Arcipelago della Sonda hanno il pelo più lungo e più spesso, le basette meno sviluppate, i ciuffi di pelo del ventre e delle coscie sono invece meno abbondanti.

      Sono feroci al pari delle altre, ma fanno più paura, poichè hanno uno sguardo così falso, così minaccioso che fa male a vederlo, e ordinariamente tengono la lingua penzolante e la coda bassa.

      La fiera, nello scorgere quei due uomini e quel ragazzo, aveva alzata la testa emettendo un sordo brontolio che nulla di buono pronosticava, ma non si era alzata. Solamente la sua coda, che spazzava il terreno con moti convulsi, tradiva od una certa inquietudine od un imminente scoppio di collera.

      — È un vicino pericoloso, — disse il signor Albani, il quale però non sembrava molto spaventato.

      — San Gennaro ci protegga, — mormorò il mozzo, battendo i denti.

      — Cosa dobbiamo fare? — chiese il marinaio, che era diventato assai pallido.

      — Restiamo tranquilli, — rispose il veneziano. — Non oserà avvicinarsi al fuoco.

      — Non ci assalirà?...

      — Non lo credo, ma non muovetevi, perchè questi animali sono coraggiosi e se credono di essere minacciati, non esitano a scagliarsi.

      — E non possediamo nemmeno un fucile a pietra!... Nemmeno una pistolaccia qualunque!... Signor Albani, bisogna trovare il modo di fabbricarci delle armi innanzi a tutto o le tigri ci mangeranno.

      — Dopo la capanna verranno le armi e vi prometto che saranno più formidabili dei fucili.

      — Ma dove le troverete!...

      — A suo tempo lo saprete e....

      — Zitto signore, — disse il mozzo, interrompendolo.

      Dalla parte della piantagione di bambù si erano udite le foglie ad agitarsi, come se un grosso animale cercasse di aprirsi il passo. La tigre aveva voltata la testa verso quelle canne giganti, poi si era alzata agitando rapidamente la coda.

      — Che un'altra tigre si avvicini? — chiese il marinaio.

      — O qualche preda? — disse il veneziano. — Sarebbe la ben venuta.

      — Per la tigre?

      — E anche per noi, poichè ci leverebbe d'attorno questo incomodo vicino. —

      Le grandi canne continuavano intanto ad agitarsi e le foglie a sussurrare, e la tigre diventava più attenta.

      Ad un tratto una grossa ombra comparve sull'orlo della piantagione e dopo una breve esitazione si diresse verso il fuoco, come se fosse attratta da una irresistibile curiosità.

      L'oscurità era troppo profonda perchè si potesse ben distinguerla, ma le sue forme rassomigliavano a quelle d'un tapiro o di un babirussa, animali molto comuni nelle isole dell'Arcipelago Chino-Malese.

      Quell'animale era già giunto a cento o centoventi passi, quando il marinaio disse: — Guardate la tigre! —

      Il felino era strisciato rapidamente e senza far rumore, dietro ad una fila di cespugli e s'avanzava verso la preda, con passo silenzioso, schiacciandosi, per così dire, contro terra.

      D'improvviso si arrestò, si raccolse su sè stesso, poi s'innalzò descrivendo una lunga parabola e piombò, con precisione matematica, sul dorso dell'animale.

      S'udì un grugnito acuto seguito dal grido gutturale e stridente della belva, poi si videro i due avversarii dibattersi alcuni istanti, quindi cadere l'uno sull'altro.

      — Morti entrambi? — chiesero il marinaio ed il mozzo, che avevano seguito con viva ansietà le fasi di quella lotta.

      — No, — rispose Albani. — La tigre sta dissanguando la preda.

      — Canaglia! — esclamò il marinaio. — Ah!... se avessi un fucile!...

      — Eccola che si rialza, — disse il mozzo.

      Infatti il formidabile felino, abbeveratosi col sangue caldo della vittima, erasi rialzato. Girò due o tre volte attorno alla preda, poi l'addentò per la nuca e malgrado fosse assai più grossa di lui, se la trascinò in mezzo alla piantagione per divorarsela con suo comodo.

      — Buona digestione, — disse il mozzo.

      — E domani avremo della carne fresca, — aggiunse Albani.

      — Che ne lasci per noi?... — chiese il marinaio.

      — Quando si sarà sfamata se ne andrà, senz'altro occuparsi degli avanzi. Sono certo di trovare domani, nella piantagione, buona parte di quel disgraziato animale. Andate a riposare ora, amici miei: comincio il mio quarto.

      — Non tornerà la tigre?...

      — Non lo credo, d'altronde in caso di pericolo vi chiamerò. —

      I due marinai si ritirarono sotto la tenda ed il veneziano si sedette presso il fuoco, dopo d'aver gettato sui tizzoni dell'altra legna.

      Il resto della notte passò senz'altri allarmi, però il signor Albani ed il mozzo udirono, in mezzo alle foreste, urla di tigri, grugniti e sibili i quali indicavano a sufficienza, come quell'isola fosse ricca di selvaggina d'ogni specie e anche di animali pericolosi.

      Urgeva


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