I Robinson italiani. Emilio Salgari

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I Robinson italiani - Emilio Salgari


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tristi, tenendosi strettamente a cavalcioni di quell'avanzo della Liguria, gettavano sguardi inquieti sulla sconfinata superficie del mare, forse colla speranza di veder apparire, sulla linea argentea dell'orizzonte, qualche macchia oscura o qualche punto luminoso che indicasse la presenza d'una nave salvatrice.

      — Ascoltatemi, — disse ad un tratto l'ex-uomo di mare, scuotendosi. — Sapete dove precisamente trovavasi la Liguria nel momento del disastro?... Tu, Enrico, eri di quarto, se non m'inganno.

      — All'est delle isole Sulu, — rispose il marinaio.

      — Sapresti dirmi la distanza?

      — Lo ignoro, signore. Quando il capitano ha fatto il punto, non ero presente.

      — E nemmeno io, — disse Piccolo Tonno.

      — Forse siamo a due o trecento miglia da quell'Arcipelago, — disse il signor Albani, come parlando fra sè stesso.

      — Lo credo, — rispose Enrico.

      — Una distanza enorme da attraversare, per degli uomini che sono privi d'un canotto e senza un sorso d'acqua e dei biscotti.

      — Senza poi contare che l'Arcipelago di Sulu è abitato dai più birbaccioni pirati della Malesia, — aggiunse il marinaio.

      — Vediamo, — disse il signor Albani. — Dove ci porta questa corrente, che ci allontana dal luogo del disastro.

      — Aspettate, signore, — disse il mozzo. — Ho una piccola bussola in tasca, regalatami dal capitano. —

      Estrasse il prezioso oggetto, lo espose ai raggi della luna e guardò la lancetta.

      — Andiamo verso l'est, — rispose poi.

      — Verso l'Arcipelago? — chiese il marinaio.

      — Sì, — confermò il signor Emilio.

      — Quale velocità credete che abbia questa corrente?

      — Forse un miglio e mezzo all'ora.

      — Supponendo che l'Arcipelago fosse lontano trecento miglia, impiegheremmo?...

      — Duecento ore, ossia otto giorni e otto ore.

      — Ventre di pesce-cane!... — esclamò il marinaio. — Tanto da morire di fame con tutto comodo!...

      — Se non di fame, per lo meno di sete, — disse il signor Emilio. — Col calore che regna su questo mare, non potremo resistere.

      — E poi otto giorni senza chiudere occhio! — aggiunse Piccolo Tonno. — Temo di non dover più mai rivedere nè Ischia, nè Napoli.

      — Nè io papà Merlotti, il taverniere di via Sottoripa, mio buon amico, — disse il marinaio. — Addio, Genova!...

      — C'è tempo a morire, amici miei, — disse l'ex-uomo di mare. — È vero che questo mare è poco battuto dalle navi, ma possiamo venire raccolti da qualcuna, oppure venire spinti verso qualche isola dell'Arcipelago. Ve ne sono parecchie lontane dal gruppo principale e chissà che qualcuna non ci sia vicina.

      — Per ora non ne vedo, signore.

      — Navighiamo da mezz'ora, Enrico. Aspetta domani mattina o posdomani.

      — Ma non abbiamo nulla da porre sotto i denti, signore.

      — In due o tre giorni non si muore.

      — Ma il sonno? Resisteremo noi?

      — Vi sono delle funi appese all'albero ed anche dei pezzi di vela. Chi c'impedirà di fabbricare, alla meglio, un'amaca, di appenderla ai due pennoni o fra la crocetta e un'antenna?...

      — È vero, — disse il mozzo.

      — Zitto, — disse il marinaio.

      — Cos'hai udito? — chiese Albani.

      Un tonfo si udì dietro all'albero. I tre naufraghi si volsero di comune accordo e videro una massa nerastra emergere a pochi passi di distanza, fissando su di loro due occhi rotondi, colla pupilla azzurrognola e l'iride verde-oscuro.

      Una bocca enorme, semi-circolare, s'aprì emettendo un rauco brontolìo, mostrando una corona di denti piatti, triangolari, frastagliati, che si muovevano come se già gustassero la preda agognata.

      — Ancora quel dannato pesce-cane! — esclamò il marinaio, impallidendo. — Ma che non ci lasci proprio più?

      — Attenti alle gambe, — disse Albani.

      — Ed alla coda, — aggiunse il mozzo.

      Lo squalo, che doveva aver seguito il rottame colla speranza d'impadronirsi, presto o tardi delle vittime, allungò il grosso capo appiattito verso l'albero, come se volesse conoscere più da vicino le prede e con un poderoso colpo di coda uscì più di mezzo dall'acqua.

      I tre naufraghi, con un moto istintivo, pur tenendosi sempre a cavalcioni dell'albero, si erano gettati indietro, aggrappandosi ai cordami del pennone di gabbia, il quale mantenevasi ritto, mentre l'altra metà trovavasi sommersa.

      — Su le gambe, — gridò Albani.

      — Fulmini!...

      — S. Gennaro mandi un accidente a quel mangiatore d'uomini!...

      — Attenzione!... —

      Lo squalo stava per ritentare l'assalto e certamente più impetuoso del primo, poichè quei mostri, sebbene pesino cinque ed anche seicento chilogrammi, sono dotati d'una agilità straordinaria. Con un colpo della loro possente coda riescono a slanciarsi fuori dall'acqua per parecchi metri, ed una volta ne fu veduto uno toccare perfino l'estremità del pennone di trinchetto d'una nave negriera, per impadronirsi d'un cadavere che era stato appositamente colà sospeso. Gli occhi del mangiatore d'uomini tradivano un'ardente bramosia e la sua bocca si era aperta smisuratamente, illuminandosi di quella luce vivida e sinistra che simili mostri proiettano durante la notte. S'immerse un istante come se volesse prendere maggiore slancio, poi si scagliò uscendo tutto intero dall'acqua, ma invece di colpire i naufraghi che si erano lasciati cadere precipitosamente, varcò l'albero e cadde dall'altra parte, imbrogliandosi fra i bracci del pennone, le sartie ed i paterazzi.

      Quasi nel medesimo istante si udì Piccolo Tonno a urlare.

      — Una scure!... Una scure!... —

       Indice

      La paura aveva fatto impazzire il mozzo od i suoi occhi avevano proprio veduto un'arma?... Il marinaio ed il signor Albani, che erano risaliti prestamente sull'albero, cercarono il loro compagno e lo videro correre, mantenendosi ritto meglio d'un equilibrista giapponese, verso l'estremità del tronco, abbassarsi rapidamente e fare sforzi disperati come se volesse strappare un oggetto profondamente infisso nel legno.

      — Ehi, Piccolo Tonno!... — gridò il marinaio. — Vuoi farti mangiare dal pesce-cane?...

      — Una scure!... Una scure!... — ripeteva il mozzo, raddoppiando gli sforzi.

      — Ma dov'è? — chiese il signor Albani.

      — È qui, infissa nell'albero.

      — Una scure lì?...

      — Sì, signor Emilio.

      — Spicciati, mio piccolo Tonno! — urlò il marinaio. — Il pesce-cane sta per ritornare! —

      Il mozzo raccolse le proprie forze e con una strappata irresistibile staccò la scure. Si raddrizzò mandando un grido di trionfo e la porse al signor Emilio.

      Lo squalo, sbarazzatosi dalle corde che lo avevano imprigionato sotto le pinne triangolari, ritornava verso l'albero per tentare un terzo e forse più pericoloso assalto. Nuotò fino a dieci passi dai naufraghi, s'inabissò un'ultima volta e rinnovando il colpo di coda balzò innanzi, ma andò a cadere proprio sopra all'albero


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