Tornanti. Pamela Fagan Hutchins

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Tornanti - Pamela Fagan Hutchins


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poteva trasferirsi in capo al mondo, ma il peggio di cui l’essere umano era capace lo avrebbe seguito ovunque. Il suo cuore crollò. Conosceva i vice sceriffi della zona. Uno era suo vicino di casa. «Contea di Johnson?»

      «Big Horn.»

      Non conosceva nessuno dei vice sceriffi della contea di Big Horn. Ma ciò non minimizzava la tragedia. «Quanto ci metteranno ad arrivare?»

      «Quarantacinque minuti.»

      «E i pazienti all’interno?»

      «I loro parametri vitali sono coerenti con l’assunzione di anfetamine. Nessun altro indicatore.» «E la coppia più anziana?» «Lei è diabetica e si è dimenticata di far rifornimento di insulina.»

      Patrick chiuse gli occhi per un lungo secondo. «Va bene, allora. Cinque milligrammi di Valium per i nostri consumatori di psicofarmaci e tenerli sotto osservazione. Controllare il livello di glucosio della nostra paziente diabetica. Sistemeremo Mildred e poi verrò a controllare tutti e a firmare le prescrizioni. Dovremmo aver finito prima che arrivi l’ambulanza. Grazie, Kim, e fammi sapere se ci sono dei cambiamenti.»

      «D’accordo.» L’infermiera annuì e rientrò nell’ospedale.

      Al suo posto apparve un uomo robusto con un cane da montagna dei Pirenei tra le braccia. La testa del cane era sopra la sua spalla, voltata dalla parte opposta rispetto a Patrick. Una zampa era appoggiata sulle braccia dell’uomo. Patrick rimase senza parole. Fai che sia solo una zampa finita in una trappola per orsi.

      L’uomo chiese: «Lei è il dottore che sostituisce il veterinario?»

      Patrick avrebbe voluto negarlo, ma rispose: «Sì», e pensò: sarà una lunga, interminabile notte.

      DUE

      BUFFALO, WYOMING

      18 settembre 1976, ore 10 di mattina

       Susanne

      Susanne sapeva che avrebbe dovuto sentirsi in colpa, ma non si sentiva tale.

      Trish stava ancora ronfando e Perry era parcheggiato davanti alla TV a guardare il college football. Dette un’occhiata a suo figlio. Stava a pancia in giù sul tappeto marrone a pelo lungo, con indosso solo le mutande di Superman. Il mento tra le mani, le ginocchia piegate, i piedi che dondolavano nell’aria. Un mini Burt Reynolds sul suo tappeto di pelle d’orso, pensò, e ridacchiò. Nessuno dei due figli era pronto per la partenza. Nessuno dei due aveva preparato i bagagli. Nemmeno lei, se era per questo.

      Sorseggiò una tazza calda di quella che Patrick chiamava la sua “acqua color caffè”. Erano le dieci di mattina ed era seduta al tavolo della cucina con indosso un caftano rosso vivo che si era fatta lei stessa. Un programma radiofonico locale che promuoveva vendite di seconda mano stava offrendo cuccioli, forniture per recinzioni e finimenti per cavalli da tiro. Rivaleggiava con la TV nell’altra stanza e il russare di Ferdinand, il loro levriero irlandese trovatello che mangiava come una betoniera e puzzava perennemente come se si fosse rotolato sopra un cane della prateria morto. Attraverso la finestra panoramica in fondo al soggiorno e sala da pranzo, Susanne poteva vedere le foglie autunnali dorate sui pioppi nel cortile posteriore, che brillavano con il sole e la brezza. Nonostante l’incalzare del ticchettio dell’orologio, non si mosse. Sentiva una tremenda mancanza di sua madre e di sua sorella, che la paralizzava. Aveva già esaurito il suo budget mensile per le chiamate interurbane parlando con loro nelle prime due settimane del mese. Le lettere sarebbero anche andate bene, ma ne riceveva solo una su tre che inviava loro. Le capiva. L’una aveva l’altra e la propria famiglia, gli amici e la comunità. Era lei quella a essere sola.

      Perché Patrick aveva dovuto farli andare a vivere così lontano da tutti quelli a cui tenevano? A parte loro stessi, ovviamente. Sembrava che stesse cercando di ritrovare un elemento, il posto, del sogno che aveva abbandonato per seguire la facoltà di medicina: fare felicemente il biologo della fauna selvatica o la guardia forestale, anche se poco pagato. Certo, si era fatta qualche amica a Buffalo, ma non era come dove viveva prima. Beh, tranne che con Evangeline Sibley. La moglie incinta dell’allevatore era una buona alternativa a sua sorella. E Patrick era a sua volta un grande amico del marito di Vangie, Henry. A parte lei, le donne native del Wyoming erano semplicemente troppo mascoline e amanti della vita all’aria aperta per Susanne. La maggior parte di loro non aveva mai visto un tubetto di rossetto o una scatolina di fard. Andavano a caccia e a pesca con, o senza, gli uomini. Susanne era orgogliosa di essere una donna del Sud. Non voleva essere come loro, ma in qualche modo si sentiva comunque... non abbastanza, debole... in loro compagnia.

      Come a confermare i suoi pensieri, il conduttore radiofonico annunciò: «Becky Wills è stata sorteggiata per una licenza di caccia all’alce vicino a Jackson e cerca qualcuno che tenga i suoi ragazzi, di tre, cinque e sette anni, per una decina di giorni mentre lei e suo marito sono fuori città a cacciare.»

      Solo nel Wyoming una donna avrebbe fatto un annuncio alla radio per trovare qualcuno che facesse da babysitter ai suoi figli per poter andare a caccia. Susanne non avrebbe mai lasciato i suoi figli con degli estranei. Non in Texas, almeno. Avrebbe potuto trovarsi nella necessità di farlo se avesse dovuto lasciare la città in fretta per un’emergenza, ma di sicuro non sarebbe stato per andare a caccia.

      Come faceva a legare con donne come Becky Wills? Ed erano tutte come lei.

      Trish entrò in cucina, stropicciandosi gli occhi. Dalle sue due lunghe e bionde trecce alla francese fuoriuscivano dei capelli, formando una cornice disordinata intorno al viso e alla testa. «Cosa c’è per colazione?»

      Ferdinand si alzò. Incurvò la schiena, stiracchiando il corpo smilzo e dall’aspetto trasandato, grande quanto quello di un pony. Poi fece un balzo da levriero e volò verso Trish. Lei lo abbracciò al collo e gli fece le moine.

      «Perry, Ferdie e io abbiamo mangiato due ore fa. Nella dispensa ci sono i cereali Life.»

      Trish strinse gli occhi e arricciò il naso, ma prese una ciotola e un cucchiaio, posandoli un po’ troppo pesantemente sulla spessa lastra del tavolo. Susanne sussultò. Il tavolo e la dispensa abbinata a fianco erano speciali per lei. Pregiato legno di noce lucido, rifiniture in ottone, ante in vetro. I primi mobili nuovi che lei e Patrick avevano acquistato. Fortunatamente, la tovaglietta assorbì l’impatto dell’urto. Trish tornò per i cereali e il latte.

      «Tuo padre è in ospedale. Vorrà partire appena torna.»

      «Senti, che vada pure.»

      «Trish.» Il tono della sua voce diceva: basta con questa storia. La figlia sospirò. «Ti posso ancora sculacciare, sai? Non sei troppo grande.» Susanne non ne andava orgogliosa, ma aveva rotto stecche, cucchiai di legno, spazzole per capelli e bastoncini sul sedere dei suoi figli. Non avevano avuto una grande efficacia.

      «Se riesci a prendermi.»

      Susanne indicò i capelli della figlia. «A questo servono le trecce.»

      Trish versò cereali e latte nella ciotola. Sbatté il cucchiaio contro i denti, poi fece una gran bevuta rumorosa. «A che ora sarà qui?»

      «Comportati bene, Trish. Sarebbe già dovuto arrivare.»

      «Grazie per avermi svegliata.»

      Susanne finse di non notare il sarcasmo. «Prego.»

      Il telefono squillò. Sperando che fosse sua madre o sua sorella, Susanne si lanciò per rispondere. Ma la figlia fu più veloce.

      «Casa Flint, parla Trish», si presentò l’adolescente, come i suoi genitori le richiedevano, roteando gli occhi al cielo. Ascoltò per un momento. «Non è qui in questo momento. La faccio parlare con mia madre.» Porgendo il telefono a Susanne, disse: «Vogliono lasciare un messaggio, sai, no?»

      «Non dire “sai, no”. Non lo so, a meno che tu non me lo dica», brontolò Susanne, e strappò il telefono alla figlia. «Sono


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