Le novelle marinaresche di mastro Catrame. Emilio Salgari

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Le novelle marinaresche di mastro Catrame - Emilio Salgari


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Catrame si grattò la testa, come per fare scaturire dal cervello qualche cosa, poi disse: – Si chiamava… Aspettate un po’… la memoria si è fatta debole, e non ha mai ritenuto i nomi… Sì,… è così,… quell’originale si chiamava Morthon, un nome non allegro, come ben vedete; e forse per questo parlava sempre di morti.

      – Avevamo lasciato i porti dell’America del Sud, diretti alle isole Mascarene, non ricordo più se a quella di Borbone, o a quella dell’Unione. Morthon, fedele alle sue abitudini, aveva dissipato nelle taverne del Brasile e della Repubblica Argentina tutti i suoi risparmi, ed era tornato a bordo un’ora prima della partenza, colle tasche penzolanti.

      – Avevo notato però che si era imbarcato di assai cattivo umore, e che il suo viso, butterato dal vaiolo, aveva un’aria da funerale, come dovevo averla io poco fa, quando lo disse il capitano. Presentiva forse la sua imminente fine? Io lo credo, poiché quel povero marinaio non doveva più rivedere né le nebbiose spiagge della sua Inghilterra, né le verdeggianti sponde della Erinni (Irlanda).

      – Un giorno, o meglio, una sera, che eravamo di quarto sul ponte, egli mi si avvicinò col viso disfatto, gli occhi strabuzzati, e mi chiese: «L’odi tu?…»

      – «Che cosa?» – domandai io sorpreso.

      – «Non odi proprio nulla?»

      – «Nulla, fuorché il vento che geme fra il sartiame e le vele«.

      – «È strano!» – disse.

      – «Compare Morthon, hai sonno stasera: va’ nella tua cuccia», gli dissi.

      – Egli mi guardò con due occhi pieni di terrore, e si allontanò più tetro che mai.

      – La sera seguente eccolo avvicinarsi ancora a me, col viso ancora stravolto e bagnato di un freddo sudore, e farmi le stesse domande. Io cominciavo a credere che il cervello di quel povero inglese si fosse guastato, e non vi feci più caso.

      – Cinque sere dopo, trovandoci noi quasi in mezzo all’Atlantico australe, Morthon, che di giorno in giorno diventava più cupo e più taciturno, mi afferrò bruscamente per un braccio serrandomelo come una morsa, e trascinatomi violentemente verso poppa, mi chiese con voce affannosa:

      – «Ma non l’odi tu?»

      – «Tu sei pazzo, Morthon», – gli risposi. – «Quale strana idea tormenta il tuo cervello?»

      – Egli mi guardò fisso, quasi non credesse alle mie parole, poi emise un profondo sospiro, come se gli si fosse levato di dosso un gran peso che gli opprimeva il cuore, e si terse il sudore che gl’inondava il pallido viso.

      – «Non m’inganni tu?» – chiese dopo pochi istanti. – «Non odi proprio nulla? Ascolta bene, Catrame, ascolta attentamente».

      – Mi curvai sul bordo, tesi per bene gli orecchi e ascoltai a lungo, ma nessun suono strano giunse fino a me all’infuori del rompersi delle onde. Guardai Morthon; egli mi fissava con due occhi da far paura, con un’ansietà estrema, come se dalla mia risposta dipendesse la sua vita.

      – «Non odo nulla che possa spaventarti tanto», – gli dissi. – «Parla: cosa odi tu?»

      – «Ho udito suonare poco fa una campana, e sono cinque sere che quei funebri rintocchi giungono ai miei orecchi», – mi rispose con voce rotta.

      – Lo guardai con spavento. Un’antica leggenda marinaresca dice che, quando un marinaio ode la campana, è segno che sta per morire, poiché è la campana dei camerati che riposano nel fondo degli abissi oceanici che lo chiama. Se Morthon la udiva, evidentemente stava per morire, poiché i compagni lo aspettavano nell’umida tomba, nel regno dei coralli.

      – Non volli spaventarlo, e gli dissi che era una pazzia il credere alle antiche leggende, che la sua era un’idea fissa nel cervello, e che non s’inquietasse. Non mi rispose: s’allontanò pensieroso, tetro, borbottando fra sé non so quali parole.

      – Non lo rividi più per parecchi giorni. Seppi poi che si era ammalato, e che di quando in quando veniva colto da accessi furiosi. Due settimane dopo ricomparve in coperta, e appena mi vide, mi disse: «Catrame, so che sono condannato, perché la campana la odo sempre. Se morrò, ricordati di me; e quando mi getteranno in mare, recita una prece pel tuo vecchio camerata. Ma bada, Catrame! Se tu ti dimenticassi, verrei anch’io a suonarti la campana…»

      – La sera stessa una violenta bufera si scatenava sull’Atlantico, nella notte Morthon cadeva dalla cima del contropappafico, sfracellandosi il cranio sui gradini del ponte di comando!… La campana de naufraghi l’aveva chiamato!…

      Papà Catrame si fermò: pareva in preda ad una viva emozione, ed era diventato più pallido del solito. Afferrò la bottiglia di Cipro, ne tracannò una buona metà, come se volesse soffocare quei dolorosi ricordi, poi, con voce lenta, monotona, riprese: – All’indomani, mentre continuava a imperversare la tempesta, il cadavere del disgraziato mio camerata veniva gettato in mare, senza che si potesse recitare l’uffizio dei morti, poiché le onde non ci davano tregua e la nave correva serio pericolo. In mezzo a quella confusione non mi ricordai le ultime parole del morto, e la prece andò in fumo.

      – Non pensavo quasi più a Morthon, quando la terza notte dopo la sua morte, mentre il mare era tranquillo e a bordo regnava un profondo silenzio, udii squillare in fondo agli abissi una campana.

      – Credetti di essermi ingannato, e mi curvai sul bordo per meglio ascoltare. Sotto le acque io udii distintamente suonare una campana; rabbrividii, e credetti per un momento d’impazzire per lo spavento. Morthon manteneva la sua promessa!

      – M’inginocchiai sulla prua della nave, e mormorai una prece per l’anima del povero inglese. Subito quel funebre suono cessò, né da quella sera più mai lo udii.

      Noi rimanemmo tutti silenziosi, guardando con spavento papà Catrame, e, tendendo gli orecchi, ci pareva di udire echeggiare sotto le onde dell’Oceano Indiano la campana dell’inglese. Uno scroscio di risa ci strappò dal nostro raccoglimento.

      Era il capitano che così rideva.

      – Che lugubre storia! – diss’egli. – Dimmi, papà Catrame: avevi bevuto molto quella sera?

      Il vecchio lanciò su di lui uno sguardo irato, poi rispose: – Nemmeno un sorso d’acqua.

      – Allora sei stato ingannato, vecchio mio.

      – Forse che i vostri famosi scienziati hanno trovato la spiegazione di quel funebre suono? – chiese il mastro con pungente ironia.

      – Gli scienziati non c’entrano; ma la spiegazione te la darà un uomo di mare.

      – Ah! – esclamarono i marinai con tono incredulo.

      – Dimmi, Catrame, – riprese il capitano, – quando udisti la campana, dove si trovava la tua nave?

      – Presso l’isola di Los Picos.

      – Allora ti dirò che il suono veniva di là.

      – Ecco una cosa che non crederò mai, signore.

      – E perché?

      – Perché non ci sono né chiese, né conventi colà.

      – Lo so.

      – E nemmeno uomini.

      – Lo so.

      – E dunque? Che l’abbiano suonata le rocce?

      – No: le onde, – rispose il capitano con voce solenne.

      – Voi mi fate impazzire! – esclamò il mastro; – non vi comprendo più.

      – Catrame, – riprese il capitano dopo alcuni istanti di silenzio, – quando presso ad un’isola deserta contornata da banchi o da scogliere pericolose non vi è un faro che avverta le navi, sai che cosa si mette?

      – Non lo so, – rispose il mastro brusco brusco.

      – Si mette una botte galleggiante o un gavitello qualunque sospendendo a una gabbia di ferro una campana.

      – Concludo:


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