Il Libro Nero. Barrili Anton Giulio
Читать онлайн книгу.Folco è prode e bello,
Esemplar de' cavalieri.
Fido albergo è il suo castello
Di dugento balestrieri.
Cento lance ei mette in guerra.
È possente e paventato;
Ma più ancora avventurato
Dell'affetto d'ogni cor.
S'è felici in sulla terra
Fin che regni in terra amor. —
– Bene, Fiordaliso, bene! – gridò Ansaldo di Leuca.
E tutti in coro ripeterono il ritornello:
S'è felici in sulla terra
Fin che regni in terra amor.
Il giovinetto proseguì, accompagnandosi cogli accordi del suo liuto:
– Sulla preda all'aure scaglia
I falcon più peregrini;
Pronti in giostra ed in battaglia
Ha cavalli saracini.
Lieto il fan di censo opimo
Le vitifere pendici;
Ma più lieto i fidi amici
Che gli fan corona ognor.
L'uom felice in terra estimo
Fin che regni in terra amor. —
– Gli amici, Ugo, tu l'hai udito, gli amici! – disse Enrico Corradengo, dopo che ebbero ripetuto il ritornello.
– Sì! – rispose Ugo. – L'amicizia è la più bella cosa e la più cara che al mondo sia.
– Adagio, messere! – gridò Fiordaliso. – Io non ho anche finito.
– Tira innanzi, dunque, da bravo!
Incuorato dal plauso della brigata il paggio intuonò la terza strofa:
– Carlomagno invidia a lui
Così dolce e lieto stato;
Ch'ei non è tra' prodi sui
Più securo e più beato.
Conte Folco a regio impero
Ben potria levar le brame;
Ma più grato a lui reame
Parve ognora un fido cor.
Più felice è l'uomo invero
Se gli arrida in terra amor. —
– Hai ragione, Fiordaliso! – esclamò conte Ugo. – L'amore accanto all'amicizia, ma un grado più in su. Questo è nella natura delle cose, e voi non ve ne dorrete, amici miei, non è egli vero?
– No, per mia fè! – rispose Ansaldo di Leuca. – E' bisognerebbe essere egoisti di tre cotte, per dolersene. Le dame anzitutto! Ma ci ha da essere ancora una strofa…
– Sì, messere; – soggiunse il paggio, – ed eccola appunto:
– Per lui sol non disumana,
Disdegnò d'un re l'omaggio
Valorosa castellana
Di gran cor, d'alto legnaggio.
È regina e imperatrice,
Se tien Folco in suo governo,
Se per lei d'affetto eterno
Per lei palpita il suo cor.
Sulla terra è l'uom felice
Fin che regni in terra amor.
– Bene! benissimo! – gridarono tutti, e ripeterono in coro, siccome avevano fatto per l'altre strofe:
Sulla terra è l'uom felice
Fin che regni in terra amor.
– Questo conte Folco era un uomo felice davvero – disse Ugo, in quella che si toglieva dal collo la sua collana d'oro, per cingerne il suo paggio prediletto. – Felice davvero! e a tutte le sue venture s'aggiunge questa, di essere cantato da sì gentile poeta. Che ne dite voi, messer pellegrino?
– Che avete ragione, per quanto si riguarda al poeta. I suoi versi sono graziosi, e meritano il presente che avete sì nobilmente fatto all'artefice. Ma il concetto, con sua e vostra licenza, non mi par giusto del pari.
– Oh! oh! – sclamò Fiordaliso, turbato nel suo trionfo poetico.
– Non c'è oh che tenga! soggiunse il pellegrino. – Recatevelo in santa pace; voi non avete, messer Fiordaliso, fatto prova di molta filosofia; laonde io mi fo' lecito di consigliarvi a studiare qualche buon libro intorno a questa materia, e in particolar modo il libro della vita, che le Sacre Carte hanno simboleggiato nell'albero della scienza del bene e del male.
– Fiordaliso, tu se' spacciato! – gridò Ottone di Cosseria.
– Periisti! – aggiunse il latinista Benedicite, dal fondo della tavola.
– Orbene, – disse, dopo una breve sosta il poeta, messo in puntiglio – correggete voi con la vostra scienza, messer pellegrino, quel che c'è di errato nei miei grami concetti!
– E perchè no? Tengo la giostra. Date qua il vostro liuto e vedremo di cavarne un costrutto. —
CAPITOLO III
Allora, in mezzo alla aspettazione universale, lo strano ospite di Roccamàla pose le mani sullo stromento di Fiordaliso, che più non parve lo stesso. Le sue dita, adunche come gli artigli d'un falco, cavarono dalle corde una tempesta di suoni, striduli e sto per dire non umani; strano preludio che fece correre un brivido di terrore per l'ossa a quella nobile udienza.
– O come suonate voi, messer pellegrino? – chiese Enrico Corradengo.
– Come il Paganini.
– E chi è il Paganini? – dimandò un altro della brigata.
– Un gran trovatore, messeri, un gran trovatore.
– E… – si provò a dire Fiordaliso, che udiva toccato il liuto da mano maestra e già si sentiva una spina nel cuore, – e vi ha insegnato egli?..
– No, io a lui; – rispose asciuttamente il pellegrino.
– Ah! noi siamo dunque al cospetto di un maestro… – disse il conte Ugo.
– Oh, questo poi no, messer lo Conte! Pizzico un tratto, per mio logorare, ma non la pretendo a maestro nella gaia scienza, come fa qualcun altro. Ora, ecco, magnifici messeri, vi canterò la ballata dell'uom felice, la ballata di Giobbe.
– Vuol essere allegra! – disse mastro Benedicite fra i denti; e frattanto di sotto alla tavola fece il segno della croce, imperocchè, dopo quel preludio indiavolato, gli era tornata la paura in corpo.
Per tutta la comitiva si fece un gran silenzio, appena il pellegrino ebbe annunziato il titolo della sua ballata. E l'ospite di Roccamàla, con voce ingrata, ma che costringeva ad ascoltare, così diede principio al suo canto:
Era su in alto splendida festa,
Chè avea l'Eterno corte bandita.
Calici in mano; corone in testa;
Tocche le cetre da rosee dita.
Tutti raccolti nel ciel natio
Eran gli alati figli di Dio.
– Il cominciamento è bello! – gridò Ansaldo di Leuca. – Pare una copia della nostra brigata, salvo che noi non abbiamo corona in testa e non siamo figli di Dio, e voi non avete le dita rosee, messer pellegrino! —
Il