Il Libro Nero. Barrili Anton Giulio

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Il Libro Nero - Barrili Anton Giulio


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d'una sega, e, ripigliato l'arpeggio, prosegui:

      C'eran tutti, chè in lieto accordo

      Venner da' chiari regni e da' bui;

      E quell'astuto, cui non fu sordo

      D'Eva l'orecchio, c'era pur lui,

      Da Dio colpito già d'anatema,

      D'alta scienza mastro Aporèma.

      – Aporèma! È un nome saracino? – esclamò Ansaldo di Leuca.

      – No, – soggiunse Corradengo – un nome greco.

      – Greco, o saracino, – borbottò mastro Benedicite, – gli ha da essere sinonimo di Satanasso. —

      Il pellegrino rispose con un altro dei suoi tetri sorrisi, e continuò cantando:

      Spirto del dubbio, spirto che indaga,

      Che viver sdegna contento al quia,

      Nè di fallaci larve s'appaga,

      E l'uom da' stolti sogni disvia.

      Com'ei da sezzo giunto s'assise,

      Lo vide il vecchio Sire e sorrise.

      – Che vuoi Satanno? –  Buon sire Iddio,

      Un posto al vostro gaio banchetto!

      Vostra fattura, padre, son io,

      Sebben m'abbiate poi maledetto,

      E qual maestro lasciato all'uomo

      Dopo la biblica scena del pomo.

      – Sì veramente, spirto malnato,

      E aver ciò fatto mi seppe reo!

      Ma non hai tutti pure ingannato…

      Ti sfugge il giusto prence Idumeo…

      – Ve' gran fatica! Voi lo volete…

      Ma lo lasciate solo, e vedrete! —

      – Sì, tenta! io tolgo da lui la mano…

      Ma inver sovr'esso fai mala prova,

      – Perchè? fors'egli fuor dell'umano,

      Oltre la terra sue gioie trova?

      Hollo a far tristo, buon sire Iddio,

      O ch'io, Satanno, non son più io! —

      Qui il pellegrino fece una sosta, che nessuno degli astanti volle turbare co' suoi ragionari, tanto erano ansiosi di udire la continuazione. E questa non si fece attender molto, poichè, dopo un altro arpeggio più cupo del primo, e con voce più stridula, il cantore di Aporèma venne alla seconda parte della ballata.

      Il vecchio di lassù tenne la fede,

      Perchè sillaba sua non si cancella,

      E l'uom felice in potestà gli diede.

      Ratta sui vanni allor d'atra procella,

      Scende sventura all'idumee pendici,

      Strugge i campi, gli armenti e le castella.

      Ve' subito oscurarsi i dì felici

      Del prence, e ve' dalle dolenti case

      Ad uno ad uno disparir gli amici!

      Nè il vinse ciò, nè l'ira al cor süase.

      Guardò la donna sua, baciolla, al core

      Forte la strinse, e impavido rimase.

      Ma passa ancora il nembo struggitore

      E a lui, che nulla sembra aver sofferto,

      Della salute inaridisce il fiore.

      Già bellezza e vigor l'hanno deserto,

      E tabe ria da cento piaghe stilla

      Onde apparisce il corpo suo coverto.

      Ve' donna innamorata! Amor vacilla.

      Ve' cor cui l'uomo non mutevol creda!

      Torse il piede ad un tempo e la pupilla.

      Solo, ognor solo, parta il giorno o rieda,

      Alla brina gelata, al sol cocente,

      Solitario carcame a' vermi in preda!

      Pur gli rimase il raggio della mente…

      Ma udite qual ne fece uso sennato;

      Maledisse all'Eterno, e irriverente

      Gli domandò: «perchè m'hai tu creato?»

      Giunto alla fine della seconda parte, la quale, anzi che un canto, fu una recitazione drammatica, accompagnata da rauchi suoni di corde, il pellegrino fece la seconda sosta.

      La brigata non fiatava; ma il suo silenzio non era per fermo testimonianza di freddezza; chè ben dimostravano il contrario gli sguardi fisi e le labbra ansiosamente tese verso il cantore.

      La imprecazione di Giobbe era stata resa con un accento da mettere i brividi, e più paurosa l'avea fatta il liuto, con un suo accompagnamento beffardo. Poco stante, il pellegrino, facendosi da capo alla cantilena delle prime strofe, ripigliò in questa guisa a cantare:

      Era su in alto splendida festa

      Ed Aporèma fu del cortèo.

      – Orben, signore, dite, che resta

      Del vostro lieto prence Idumèo?

      Povero, infermo, solo, reietto,

      Al suo fattore grida così:

      «Perchè mi desti core e 'ntelletto?

      «Perchè m'apristi le luci al dì?»

      Affè, gran cosa l'esser felice

      Se un sogno all'uomo la vita infiori,

      E raggio d'iride l'ingannatrice

      Zona vi stenda de' suoi colori!

      Felice è l'uomo fin che la fede

      Inviolata nel cor gli sta,

      E il primo intonaco di ciò che vede

      A brani a brani non se ne va. —

      – E tu, Aporèma, forse più lieto

      Sei tu che 'l negro dubbio diffondi,

      Tu che turbandomi l'alto secreto

      Ogni parvenza scuoti e disfrondi?

      Dimmi, te stesso non hai dannato

      A lutto eterno fin da quel dì

      Che in questo sogno viver beato

      Sdegnasti e l'ira mia ti colpì?

      – Il ver parlate, buon sire Iddio;

      In cor non sente gioie Aporèma.

      Nel duol mi cruccio, ma il duolo mio

      Non può speranza vincer, nè tema.

      Quanto la vostra mano dispone

      Per me segreti, sire, non ha:

      So quanto valgono cose e persone,

      E niun sul prezzo gabbo mi fa.

      La ballata del pellegrino, e la sarcastica chiusa, fecero una grande impressione sulla nobile comitiva. Gli amici del conte Ugo e i suoi vassalli si guardarono in viso trasognati; indi tornarono a guardare il pellegrino, sulle cui labbra scorgevasi ancora il sogghigno di Aporèma. A mastro Benedicite, allora più che mai ricaduto in balìa delle sue superstiziose paure, venne in mente che fosse proprio lui quello spirito maligno del quale aveva cantate le imprese; epperò il degno strozziere se ne rimase mutolo, a capo chino, fantasticando sulle conseguenze di quella visita notturna, e non badando punto a citazioni latine; segno che il suo turbamento era grave.

      Anche il conte Ugo era muto, sebbene non partecipasse alle ubbìe del suo fidato vassallo e non vedesse


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