Il Libro Nero. Barrili Anton Giulio
Читать онлайн книгу.mi dilectissime! Se debbo andare a dormir nella torre, è pur ragionevole che io sappia…
– Ci andrete? – dimandò lo strozziere, guardando il pellegrino con atto di maraviglia.
– Se ci andrò? Lo chiedo per grazia profumata dal conte di Roccamàla. E chi sa che io, con le sante reliquie e le indulgenze che porto da Roma, non venga a capo di togliere dalla torre del Negromante…
– Ah! così voi diceste il vero! – interruppe mastro Benedicite. – Io, per me, con buona pace del magnifico conte Ugo, credo che ne sia grande il bisogno.
– Ma raccontatemi dunque, ve ne prego in nome dei vostri diletti falconi, o nobile accipitrario – disse il pellegrino, alludendo alla professione del falconiere – che cosa avviene egli in quella torre del Negromante?
– La è una storia lunga – rispose mastro Benedicite – siccome vi ha detto messer lo conte pur mo', ed ha cominciato da Ugo il Negromante, che dopo aver preso il convento ai monaci di San Bernardo, per farne una rocca, si trasse il diavolo in casa con le sue stregonerie.
– Cioè – soggiunse il conte – furono i monaci che inventarono questa storia del diavolo, per vendicarsi della perdita del convento. Ma basti, ve la dirò io, questa leggenda, poichè il mio falconiere ci menerebbe troppo per le lunghe. Si narra adunque che, dopo la morte di Ugo il Negromante, in certe notti dell'anno si vedessero apparir fiamme dalle finestre della torre che sta sul burrone; che poi queste fiamme si vedessero ogni notte; e v'ebbe chi giurò d'aver veduto nel bagliore il profilo del mio antenato. Altri disse del diavolo; altri di tutt'e due, che stessero amichevolmente a colloquio. Comunque sia, cose strane si vedevano; e frattanto, chi dormiva nelle stanze della torre non udiva mai nulla, non si addava di nulla; che anzi, appena postosi a letto, era côlto da sonno così profondo che fino a giorno inoltrato non c'era più verso di svegliarlo. Notate, messer pellegrino; non sono io che vi narro queste cose; è la cronaca di Roccamàla. Ed essa narra eziandio che, dopo molti anni di queste paurose apparizioni, uno dei miei maggiori, Aleramo il biancamano, mandò pei monaci, e con donativi alla loro comunità cercò di renderseli benevoli, affinchè cacciassero il demonio dalla torre del Negromante. Ma, o fosse che i loro scongiuri non approdassero, o che non bastassero i presenti del mio trisavolo, fatto sta che il demonio non volle uscir fuori, e bisognò chiamare quassù il santo vescovo Gualberto, uscito dall'ordine de' Cisterciensi medesimi, il quale una notte si chiuse nel luogo maledetto, dopo essersi fatto dare un foglio di pergamena, chiuso in una fascia di pelle nera, e non ricomparve che la mattina seguente. Ma egli pare che il santo vescovo avesse sfruttato per bene il suo tempo, imperocchè corse la voce che egli avesse parlato con lo spirito maligno, e trovatolo duro anzichè no, avesse pure ottenuto da lui la promessa di non rimetter più piede in Roccamàla, sotto certe condizioni, le quali furono scritte nella pergamena e sottoscritte dai due in formis ed modis. Dico bene, mastro Benedicite?
– Benissimo, messer lo conte, benissimo!
– E queste condizioni, – disse il pellegrino, che aveva mostrato di udire con molta attenzione la leggenda del suo ospite – quali erano esse?
– Affè, ch'io non saprei dirvele ora! – rispose il conte. – Ma egli mi par di aver udito che tra l'altre ci fosse questa di rinunziare a' suoi diritti di possesso su Roccamàla, fino a tanto non ci fosse tra i suoi signori un uomo contento. —
– Bizzarro, quel demonio! – esclamò il pellegrino.
– Ve l'ho detto, messere; questa favola deve essere stata messa fuori dai nostri ottimi frati, e resa poi più credibile dal fatto che tutti i signori di Roccamàla furono gente malinconica oltremodo. – Che ha il castellano che non lo si vede mai a sorridere? – Non sapete? i signori della rocca non possono essere lieti mai; il santo vescovo Gualberto sapeva pure il fatto suo, quando accettò il patto del diavolo. O come volete che faccia egli a tornare, se questi castellani, di padre in figlio, son sempre così rannuvolati? E così, una storia siffatta ha potuto essere creduta, e sopra tutto accresciuta dalle superstizioni del volgo.
– E il libro?..
– Ah, il libro nero? Benedicite vi potrà raccontare com'è scritto, come legato, e quante borchie, quanti fermagli ci avesse sulla negra coperta; ma ohimè, vedete leggenda sciagurata! nè egli l'ha visto, nè altri al mondo.
– Messere… – esclamò Benedicite, con accento di rispettoso rimprovero.
– Sì, sì, – ripigliò il conte sorridendo – la nota cronaca racconta che il libro nero fosse chiuso in un armadio di legno, rivestito di ferro, che sta ancor di presente nella torre. Ma si è rovistato ogni cassettone, ogni ripostiglio, e il libro non è comparso. S'è picchiato su per le pareti, cercando se si sentisse alcun vuoto, ma le furono novelle. Chi vi dirò io di vantaggio? Da Aleramo biancamano in poi, nessuno mai seppe di questo negozio, chè certo ha da essere stato inventato più tardi dal convento vicino. Infatti il mio trisavolo non ne tramandò memoria veruna, e non ne seppero nulla, almeno per diretta via, nè Corrado senza paura, nè Ingone il rosso, nè Roberto il taciturno, che fu mio padre. Ora, voi sapete tutto, cioè quanto rileva, della leggenda di mastro Benedicite, la quale vuol essere compiuta col dirvi che nella stanza della torre, e sempre a cagione di questa favola, non ci dorme più alcuno, sebbene ella sia una delle migliori di Roccamàla.
– Orbene, con vostra licenza, messer lo conte, andrò io a dormire colà; – disse il pellegrino; – per dove ci si va egli?
– Benedicite vi accompagnerà, che ben vi è debitore di tanto, dopo avervi fatto aspettare così lungamente alla entrata del castello.
– Oh, io non gli tengo il broncio per cotesto! – soggiunse l'ospite, mettendo con dimestichezza una mano sulla spalla del falconiere. – Ma che avete voi, mastro Benedicite? Si direbbe che un povero pellegrino vi fa paura! Non son bello, lo so, ma non avrei creduto mai che voi, vir sapiens, giudicaste gli uomini dalla loro apparenza.
– Diminguardi, messere! Quod Deus avertat… – rispose lo strozziere, provandosi a ridere.
E intanto tremava a verghe. La torcia di resina gli ballava la danza macabra nel pugno.
Qui, fatta riverenza al conte Ugo, il pellegrino si ritirò, accompagnato dal povero strozziere.
Rimasto solo, il conte si diede a passeggiare per la sala, senza ricordarsi dell'ora tarda e dei famigli che lo attendevano sul limitare, per rischiarargli la via fino alle sue stanze. Egli, già se n'è accorto il lettore, non era più di quel gaio umore, col quale si era seduto a mensa; molte cose erano avvenute nel picciol mondo della sua mente, molti e svariati pensieri vi turbinavano per entro.
Per la prima volta in sua vita, Ugo di Roccamàla incominciava a dubitare del lieto aspetto in cui solevano apparirgli le cose; il sottile veleno della filosofia d'Aporèma gli si era filtrato nel cuore, ed egli già sentiva quell'interno disagio, quel turbamento, quella inquietudine, che sono i segni precursori di tutte le infermità, siano esse del corpo o dell'anima.
Nel canto del pellegrino, a dir vero, non era nulla che egli già non avesse udito, o fatto argomento di controversia nella sua mente; chè anzi, discusse tra sè, o con altri, le ragioni del dubbio e quelle della fede, già da lunga pezza egli aveva data la palma a quest'ultima, e non era uomo da mutarsi così facilmente per ragionamento d'altrui. Ma egli bisogna pur dire che strane oltremodo erano le circostanze tra cui gli era apparso il pellegrino. Quello smilzo personaggio, che non si sapeva chi fosse, che parea contraddirsi ad ogni istante, che diceva le cose più gravi e malinconiche con bocca da ridere e che rideva con cera da funerale, gli aveva fortemente colpita la mente. Egli poi non se ne era anche fatto accorto, ma le paure del suo falconiere gli giravano confusamente per la fantasia: e tutte queste cose, mettendo l'animo suo in uno stato particolare, davano risalto ad una tesi che gli si offriva per la prima volta armata di beffardi sillogismi, di cupi dilemmi e di paurose interrogazioni.
Il suo raziocinio non s'era anche ficcato in quel ginepreto; sto per dire che gli occhi della sua mente non avevano ancora misurato il pericolo. Sentiva, non pensava per anco, o, per dire più veramente, i pensieri gli erravano ancora nel cervello, incerti, pallidi, senza contorni, sformandosi ad ogni tratto e in cento guise,