Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12 - Edward Gibbon


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ad una persuasione cara al loro cuore, i Fiamminghi credettero rivedere il Sovrano che pianto avevano per lungo tempo. Ma la Corte di Francia, dopo brevi indagini, scoperse l'impostore che fu ad ignominiosa morte dannato. Pur non sì di leggieri i popoli della Fiandra abbandonarono una illusione che gli allettava: onde i più gravi storici di questo paese danno colpa alla Contessa Giovanna di avere sagrificata all'ambizione la vita di un genitore infelice139.

      A. D. 1216

      Tutte le nazioni venute a civiltà ammettono, durante la guerra, un accordo pel cambio, o pel riscatto dei prigionieri. Di questi protraendosi la cattività, non è un mistero il loro destino, e giusta il loro grado, onorevolmente, o del certo umanamente, vengon trattati; ma le leggi della guerra il selvaggio principe dei Bulgari non conoscea; ed essendo difficile il portar lo sguardo ne' silenziosi nascondigli delle sue prigioni, volse un intero anno prima che i Latini fossero certi della morte di Baldovino, e che Enrico acconsentisse ad assumere il titolo d'Imperatore. Cotal moderazione, siccome esempio di rara e inimitabile virtù, applaudirono i Greci, che ambiziosi, perfidi ed incostanti, pronti ognora mostravansi ad abbracciare, o anticipar l'occasione di una sede vacante, in tempo che quasi tutte le monarchie dell'Europa aveano riconosciute, o confermate le leggi di successione, veri mallevadori della sicurezza de' popoli e de' monarchi. Morti a mano a mano, o ritiratisi gli eroi della Crociata, Enrico rimase presso che solo, gravato dal peso di far la guerra e di difender l'Impero. Già il rispettabile Dandolo, carico d'anni e di gloria, giaceva nel sepolcro; il Marchese di Monferrato tornava lentamente dalla sua guerra nel Peloponneso per vendicar Baldovino e proteggere Tessalonica. Nell'abboccamento che questi ebbe coll'Imperatore, vennero accomodati alcuni vani dispareri intorno l'omaggio e i servigi feudali; indi scambievole stima e comune pericolo avendoli in salda lega congiunti, questo nodo vie più fermarono le nozze di Enrico colla figlia di Bonifazio; ma non andò guari che Enrico dovette piangere la morte del suocero e dell'amico. Seguendo il consiglio di alcuni Greci rimasti fedeli, il marchese di Monferrato operò con buon successo un'ardimentosa scorreria nelle montagne di Rodope. Al solo suo avvicinarsi, i Bulgari si diedero a fuga, non mancando però, giusta il loro uso, di riordinarsi per rendergli funesta la ritirata. Il guerriero intrepido, appena seppe essere assalito il suo retroguardo, montò a cavallo, e corse colla lancia in resta incontro al nemico, avendo persino a sdegno di ripararsi il corpo colla sua armadura; ma in mezzo al tentativo imprudente, un dardo a morte il ferì: onde i Barbari fuggitivi ne portarono la testa a Calo-Giovanni, siccome trofeo di una vittoria, il merito della quale non avevano avuto. Nel punto di questo fatale avvenimento cade la penna di mano, e gli accenti mancano al generoso Villehardouin140. Se egli continuò ancora a sostenere l'uffizio di maresciallo della Romania, le successive imprese di lui alla posterità sono ignote141. I pregi d'Enrico non erano inferiori all'arduità del momento in cui prese le redini dell'Impero. All'assedio di Costantinopoli, al di là dell'Ellesponto, acquistata erasi la rinomanza di prode cavaliere e di abile generale. Alla intrepidezza del fratello univa la prudenza e la mansuetudine, virtù che all'impetuoso Baldovino non furono gran che famigliari. Nella duplice guerra contra i Greci dell'Asia e i Bulgari dell'Europa, sempre mostrossi il primo in arcione, o sulle navi, nè mai trascurando alcuna di quelle cautele che assicurar potevano la vittoria, spesse volte coll'esempio della sua intrepidezza a secondarlo e a salvar l'Impero gli scoraggiati Latini animò. Nondimeno al successivo miglior esito delle cose, meno gli sforzi d'Enrico, e i soccorsi d'uomini e di danaro spediti dalla Francia contribuirono, che non gli orrori, gli atti crudeli e la morte del nemico il più formidabile dei Latini. Coll'implorare siccome liberatore Calo-Giovanni, i Greci speravano che costui le lor leggi e la lor libertà avrebbe protette; ma ebbero ben tosto l'infausta occasione di accorgersi, fin dove la ferocia di un Barbaro pervenisse, e di abborrire il selvaggio conquistatore, che del proprio disegno di spopolare la Tracia, di spianare le città, di trapiantarne gli abitanti al di là del Danubio omai non faceva un mistero. E già parecchie città, parecchi villaggi della Tracia deserti erano; già in luogo di Filippopoli un cumulo sol di rovine scorgevasi. Gli abitanti di Andrinopoli e di Demotica, primi autori della ribellione un egual destino aspettavansi. Innalzatosi fino al trono di Enrico un grido di dolore e di pentimento, ebb'ei la grandezza d'animo di aggiugnere al perdono la sua confidenza ne' popoli supplichevoli. Non potendo nell'istante raccogliere sotto i proprj stendardi più di quattrocento cavalieri seguìti dai loro arcieri, e sergenti, con questo sì tenue corpo di esercito, cercò e rispinse il Capo dei Bulgari che, oltre alla sua fanteria, a quarantamila uomini di cavalleria comandava. Ben s'avvide in tal circostanza Enrico, qual sia la differenza tra l'avere favorevoli, o contrarj gli abitanti inermi del paese che teatro è della guerra. Salvò dalla distruzione le città che tuttavia rimanevano, costringendo il barbaro Giovannizio ad abbandonare, sconfitto e coperto di obbrobrio la preda; l'assedio di Tessalonica fu l'ultima fra le calamità che questo principe fece sentire alla Grecia e che egli stesso sentì. Nel più folto della notte, essendo stato assassinato entro la sua tenda, il Generale, o fors'anche l'uccisore medesimo che lo trovò immerso nel proprio sangue, attribuì questa morte alla lancia di S. Demetrio, nè fuvvi generalmente nel campo chi nol credesse142. Dopo molte riportate vittorie, il saggio Enrico conchiuse un onorevole Trattato di pace col successore di Giovannizio, e coi principi di Nicea e d'Epiro. Coll'abbandonare le sue pretensioni sopra alcuni incerti confini, assicurò a sè medesimo e ai suoi feudatarj il possedimento di un vasto reame che duratogli per dieci anni, lasciò godere all'impero questo intervallo di pace e di prosperità. Alieno dalla troppo severa politica di Baldovino e di Bonifazio, gli uffizj militari e civili senza timore ai Greci fidava; condotta generosa, che divenuta era ancor necessaria, perchè i principi di Epiro e di Nicea aveano appresa l'arte di sedurre i Latini e di mettere in opera la mercenaria loro prodezza. Si mostrò sollecito Enrico di porre insieme d'accordo i suoi sudditi, e di compensarne i meriti, non tenendo conto di paese, o di lingua; solamente mostrò minor cura della riconciliazione delle due Chiese, che cosa pressochè impossibile gli sembrava. Pelagio, Legato del Pontefice, che un fasto addicevole ad un sovrano fra le mura di Bisanzo ostentava, oltre all'avere abolito il culto greco, pretendeva a tutto rigore il pagamento delle decime da chicchessia, una chiara professione di fede intorno alla processione dello Spirito Santo, una cieca obbedienza ai comandamenti del Papa. In tutti i tempi, la parte più debole si è trovata costretta a rimostrare i doveri della propria coscienza, ad implorare i diritti della tolleranza. «I nostri corpi, diceano i Greci, sian pur di Cesare, ma le anime nostre appartengono a Dio». La fermezza dell'Imperatore pose un riparo alla persecuzione143. Laonde, se pur è vero che ei morì di veleno dai Greci apprestatogli, tal prova d'ingratitudine e di stoltezza, è fatalmente atta ad ispirarne trista opinione sul genere umano. Il valore di Enrico potea dirsi virtù comune, in cui diecimila cavalieri gli erano pari. Ma in un secolo di superstizione, un coraggio ben più straordinario diè a divedere, quello di opporsi all'orgoglio e all'avarizia del clero. Osò, nella cattedrale di S. Sofia, collocare il suo trono alla destra del trono del Patriarca, il quale atto riguardato a Roma, come colpevole presunzione, gli procacciò agre censure da Papa Innocenzo III. Con un salutare editto, primo esempio delle leggi che le mani morte riguardano, l'Imperatore Enrico proibì la vendita de' feudi; perchè molti Latini, impazienti di ritornare in Europa, abbandonavano i fondi loro alla Chiesa, che con danaro contante, e con indulgenze ne pagava il prezzo. Questi terreni divenendo sacri, e immediatamente fatti immuni dal militare servigio, una colonia di soldati sarebbesi ben tosto trasformata in una corporazione di preti144.

      Il virtuoso Enrico morì a Tessalonica, ove, per difendere il regno e il figlio ancor fanciullo dell'amico suo Bonifazio erasi trasportato. Tutta la linea maschile de' Conti di Fiandra colla morte de' due primi Imperatori di Costantinopoli rimaneva estinta; ma la lor sorella Jolanda era moglie di un principe francese e madre di numerosa prole. Una figlia di lei avea per marito Andrea, Re d'Ungheria, prode e pio campion della Croce; dal quale, col farlo Imperatore, i Baroni di Romania i soccorsi d'un possente e vicin regno sarebbersi procacciati; ma mostratosi il saggio Andrea rispettoso alle leggi della successione, i Latini sollecitarono la principessa Jolanda e il marito di lei Pietro di Courtenai, Conte di Auxerre a trasportarsi a Costantinopoli per ivi cingere il diadema d'imperator d'Oriente. Chiaro per paterna origine e per regale legnaggio della sua


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<p>139</p>

Vedasi come raccontino la storia di questo impostore gli scrittori francesi e fiamminghi, nel Ducange (Hist. C. P. III, 9), e le ridicole favole avutesi per vere dai monaci di S. Albano, in Mattia Paris (His. maj., p. 271-272).

<p>140</p>

Villehardouin (n. 257). Trista conclusione che a me pur duole il citare. Noi perdiamo ad un tempo l'originale della storia di Villehardouin, e i preziosi comentarj del Ducange. Le due lettere di Enrico al Papa Innocenzo III portano qualche schiarimento alle ultime pagine del nostro Autore (Gesta, c. 106, 107).

<p>141</p>

Il Maresciallo viveva ancora nel 1212; ma è probabile che ei sia morto poco dopo, nè mai tornato in Francia (Ducange, Osservazioni sopra Villehardouin p. 238). Il feudo di Messinopoli, conferitogli da Bonifazio, era l'antica Maximianopolis, fiorente fra le città della Tracia ai giorni di Amiano Marcellino (n. 141).

<p>142</p>

Il servigio della Chiesa di questo S. Avvocato di Tessalonica era fatto dai Canonici del santo Sepolcro. Essa era famosa per un olio santo che continuamente vi distillava e operava portenti (Ducange, Hist. de Const. II, 4).

<p>143</p>

Acropolita, c. 17, racconta la persecuzione del Legato, e la tolleranza usata da Enrico (come egli la chiama) κλυδωνα κατεστορεσε, sedò la procella.

<p>144</p>

V. il regno di Enrico in Ducange (Hist. di C. P. l. I, c. 35-41, l. XI, c. 1-12) che sapeva dalle lettere dei Papi trar grande profitto per la sua Storia. Le Beau (Hist. du Bas-Empire, t. 21, p. 120-122), ha trovate, forse nel Doutremens, alcune leggi di Enrico sul servigio de' feudi e sulle prerogative imperiali.