La Casa Sulla Chiusa. Andrea Calo'

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La Casa Sulla Chiusa - Andrea Calo'


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le sue forme ed etichettature. Cancellare tutto e ricominciare da zero, è questa la sfida. Ma è tanto semplice quanto indovinare il numero esatto di fili d’erba contenuti in un metro quadrato di terra in un campo.

      I cieli di Borgogna hanno una luce particolare e il loro colore avvolge e cattura, anche quando il tempo è brutto. Se ti fermi e ti sdrai a terra ad ammirarli volgendo lo sguardo verso l’alto, questi cieli ti cadono addosso e ti avvolgono, facendoti levitare. Non ne percepisci il limite, puoi perderti totalmente e lasciarti andare ai pensieri più disparati. E proprio là dove il cielo cede spazio alla vallata, si dispiega un mosaico di appezzamenti terrieri multicolore, che vanno dal giallo paglierino del grano maturo al verde intenso delle foglie alte dei vitigni. Qua e là s’innestano le macchie scure degli alberi ad alto fusto, ulteriormente rimarcati dalle ombre che essi stessi producono con il loro folto fogliame. Tutto questo è disegnato su un terreno morbido e ondeggiante alla vista, a tratti piatto e in altri gentilmente posato su graziose alture in cima alle quali spunta un immancabile castello. Ai piedi delle alture i piccoli paesini medioevali con le loro chiese, il cimitero annesso e i canali d’irrigazione completano il meraviglioso quadro bucolico. E’ l’immagine di un tempo che fa ormai parte di un passato lontano, tanto lontano da non poter essere compreso completamente e pienamente il più delle volte. Le strade strette e sterrate immerse nella campagna tracciano percorsi simili a disegni realizzati a mano libera. Formano una trama perfetta, capace di collegare ogni villaggio agli altri, come un’enorme ragnatela. Le case rurali tipicamente realizzate in pietra viva, come nodi di questa tela, segnano i punti di riferimento per i viandanti incuriositi dalla semplicità di una realtà di vita ancora presente in queste silenti campagne. Enormi nella loro maestosità, con la bellezza tipica delle costruzioni francesi del XX° Secolo, per la pietra che le compone, per i colori sempre vividi, per le ampie ante oscuranti e per le finestre in legno e ferro battuto, regolarmente rinfrescate con sorde vernici a smalto in tinte pastello. Molte di queste costruzioni ospitano rigogliose specie di edera, arrampicate fino alla sommità dei tipici tetti a punta sui quali spuntano regali lucernai. Immagino il panorama che si può osservare da lassù, come ultima immagine alla sera prima di addormentarsi o come primo dolce risveglio il mattino seguente. I rami capaci di seguire il profilo dei muri sfiorano a volte le finestre, si attorcigliano stretti intorno ai numerosi comignoli nella stagione calda per poi abbandonarli durante l’inverno, quando si accendono i camini. Dove l’edera non copre i muri, fresche macchie di muschio compatto completano la tinteggiatura naturale delle facciate esposte a nord, come fossero pezze di stoffa cruda cucite su un vecchio vestito sgualcito. In molte altre, una variopinta fioritura di rose, ciclamini, glicini e gelsomini si erge fiera da un letto composto di erba, papaveri rossi e folti ciuffi di lavanda. Le erbe spontanee, comunque curate e profumate, completano l’immagine di giardini semplici ma al contempo rilassanti e freschi. Cavalli e buoi sono lasciati liberi nei campi, restano ben lontani da pecore e capre che preferiscono invece raccogliersi in gruppo e trascorrere il tempo restando immobili sul posto, mangiando un ciuffo di erba fresca ogni tanto. Se ci si sofferma a guardarli attentamente, rispondono con sguardo lento e assonnato, gli occhi semichiusi e i movimenti minimi, annoiati, totalmente noncuranti dell’estranea presenza, senza avviso di alcun rischio o pericolo imminente. Di certo, la loro fine non è diversa da quella di altri tenuti chiusi in capanni e stretti recinti, ma indubbiamente la qualità della loro esistenza non può essere minimamente paragonata a quella dei loro simili reclusi. Per questo motivo, a detta di molti, la loro carne è più buona. Il tempo sembra rallentare così come i ritmi della vita e le emozioni. Tutto si distende, tutto si apre. La consapevolezza dei propri problemi si dissolve e ci si focalizza su ciò che è vacuo, quasi irreale in un mondo materiale. Mi fermo a guardare un campo spingendo l’occhio ai limiti del visibile, vedo la linea dell’orizzonte. Non riesco con i sensi ad andare oltre perché l’occhio non me lo consente, ma la mia mente supera il limite dipingendo di fronte a me l’impalpabile immagine della continuazione di questo paesaggio, in un istante. Mi sento tanto piccolo in mezzo a tanta vastità, ma oltremodo percepisco un senso di sicurezza e di appagamento interiore, sentimento che assai raramente ho provato prima nella mia vita.

      Ho scelto la Borgogna per trascorrere qualche giorno di vacanza, per rilassarmi con mia moglie e dimenticare per un po’ il frastuono della vita di città. E’ tutto così diverso qui. In città ogni tanto mi assale il desiderio del distacco. I luoghi del quotidiano m’infastidiscono come un prurito dei più molesti, le persone non mi appagano più di tanto e mi assale un desiderio d’isolamento: quasi che l’unica riconciliazione possibile possa passare solo attraverso l’assenza dei rumori di città e dei suoi abitanti. Provo spesso, in questi momenti, a concentrarmi sul dettaglio piccolissimo di un paesaggio: l’inizio di una salita in montagna, la finestra di una casa che si affaccia su di un prato, una panchina sistemata accanto ad una fontana di campagna. Sento che lì il rumore si trasforma in suono, si combina e s’integra con il concerto universale, lo stesso in cui una voce umana può tornare a somigliare a un canto, senza spingere violentemente per il primato della onnipresenza. Quando cammino per le strade, nelle mie giornate dell’insofferenza, l’umanità mi appare una presenza proterva, per numero di esemplari e per agitazione. Colgo il loro affanno per arrivare non si sa dove come un segnale di disperazione, di quella cattiva, pronta a farsi largo anche con le unghie o con le armi. E allora non posso fare a meno di sentirmi nato e destinato altrove, che sia l’inizio di una salita in montagna, la finestra di una casa e il suo prato o una panchina sistemata accanto ad una fontana di campagna, poco importa: in ogni caso si tratta di un “altrove” dove la voce può tornare a risuonare come un canto, il mio.

      La nostra meta era una piccola casa sul canale di Borgogna, circa alla metà della sua totale lunghezza, proprietà del custode di una delle tante chiuse ivi presenti, sita nel villaggio di Gissey sur Ouche e prospiciente il canale stesso. Cercavamo un po’ di pace, di rilassamento, d’isolamento dal caotico mondo di città, alla ricerca di noi stessi. Il paesaggio innanzi a noi si dispiegava in un concerto ci colori, di riflessi di sole disegnati nelle pozze d’acqua, ci catturava completamente. Sarebbe stato difficile ritornare alla vita di città, già ce ne rendevamo conto, ancor prima di aver assaggiato il posto. Il meglio però doveva ancora arrivare, presentandosi prepotentemente davanti ai nostri occhi, invadendoci il cuore e catturando per sempre la nostra attenzione. Gissey è un villaggio formato da un pugno di case per lo più costruite in pietra, in piena eco medioevale. Il municipio, una scuola, una chiesa e il suo cimitero adiacente erano gli unici edifici pubblici visibili dalla strada centrale. Un solo ristorante, piuttosto piccolo, offriva menù turistici a prezzo fisso solo in alcuni giorni della settimana, inclusi il sabato e la domenica, raramente la sera. Nessun negozio, nemmeno di generi alimentari. Anche qui si notavano gli animali in libertà nei campi, gli uccelli si libravano in cielo disegnando cerchi e archi ad ampio raggio, planando e risalendo come ballerini guidati dalle note perfette di un’aria classica.

      Arrivati nei pressi del villaggio, voltammo su una stretta strada sterrata, cosparsa di sassi e ghiaia, così stretta che difficilmente due auto sarebbero potute transitare contemporaneamente in senso opposto. Costellata di buche larghe e profonde, qua e là riempite dall’acqua piovana non assorbita dal terreno, la stradina fiancheggiava il canale che si distendeva alla nostra sinistra e sul quale scorgevamo qualche piccola chiatta che procedeva in linea retta. Sulle chiatte la gente rideva allegramente, si guardava attorno disegnando sui volti sguardi carichi di folklore, i visi dalla pelle lucida e ben tesa, di un colore bianco latte macchiato di un rosa confetto e con le gote tendenti al rosso acceso. Gli uomini scattavano fotografie mentre spizzicavano stuzzichini e sorseggiavano avidamente del vino da lunghi calici in vetro. Forse erano già sopraffatti dalla potenza dell’alcol. Donne di mezza età sedevano rilassate, le gambe scomposte sulle panche, di legno scuro e metallo, che arredavano il ponte della barca. Oppure, ove presenti, su sedie sdraio con seduta in telo grezzo, color beige. I bambini appoggiati alle loro madri gustavano i loro gelati, il viso parzialmente nascosto dai loro variopinti berretti per proteggersi dal sole e nascondere l’imbarazzo agli sguardi dei curiosi compagni di viaggio. Davano l’impressione di assaporare la più assoluta libertà, o qualche cosa di molto simile, la spensieratezza, quasi fossero parte integrante dell’ambiente,


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