La Casa Sulla Chiusa. Andrea Calo'

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La Casa Sulla Chiusa - Andrea Calo'


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si appostano sui sentieri lungo i bordi, esperti e ben attrezzati gli uni, semplici principianti muniti solo di canna e di retino gli altri, tutti con il comune intento di portare a casa un grosso pesce e gustarselo per cena da soli o con la famiglia, accompagnato da qualche saporita salsa francese, del buon vino e una baguette. Se ne vedevano davvero tanti, schierati in fila come soldati, alcuni più concentrati altri più rilassati, quasi assonnati. Lasciavano le loro auto parcheggiate non molto lontano dalle loro postazioni di pesca, ma con tutti i finestrini rigorosamente aperti. Di fronte alla chiusa alcune collinette segnavano un confine non invalicabile, essendo di modesta altezza. Non si vedevano case o costruzioni di alcun tipo, forma o diversa destinazione d’uso in tutta l’area che ci circondava. Qualche passo oltre la sponda del canale, opposta a quella sulla quale ci trovavamo, un torrente piuttosto agitato saturava l’aria con il suono prodotto della sua acqua scrosciante, leggermente deviata da grossi massi che vi si ritrovavano all’interno, sparsi qua e là. Le foglie che si distaccavano dai rami degli alberi posti sul bordo cadevano nell’acqua dopo aver ondeggiato per un po’, per esser poi condotte dalla corrente lungo la sua pendenza. I sassi circuiti con movimenti eleganti, curvi e sinuosi, rimanevano lì sorpresi, silenti e incapaci di arrestarne o anche solo rallentarne il viaggio. Che danza!

      Erano le prime ore del pomeriggio, il sole alto nel cielo riscaldava l’aria ma non si percepiva l’afa. L’umidità nell’aria era minima, nonostante la vicinanza al corso d’acqua. Urs sfoggiava il suo solito bel sorriso. Invitandoci ad accomodarci, si scusò dicendo che si sarebbe assentato alcuni minuti per preparare l’aperitivo. Dall’interno della casa, attraverso la piccola finestra lasciata parzialmente aperta, proveniva il suono sordo del coltello che Doris armeggiava mentre tagliava cubetti di formaggio e pane biscottato intriso di olio e spezie. Il coltello sembrava urtare un piano di lavoro realizzato in pietra viva, ad intervalli tanto regolari da essere confondibili con quelli prodotti da una macchina piuttosto che da un braccio umano. Mia moglie ed io ci guardavamo restando in silenzio, provando un senso di profondo assopimento, di rilassamento. Solo due ore di permanenza sul posto ci avevano già fatto perdere completamente il legame con la realtà di vita cittadina che sembrava quasi non appartenerci più.

      Â«Ma può davvero esistere tutto questo? Sto forse vivendo un sogno?», esclamò Sonia a bassa voce, forse per non farsi sentire dai proprietari che, comunque, non avrebbero compreso le nostre parole.

      Â«E’ un’incredibile realtà che credevo ormai perduta nei tempi e dispiega proprio qui davanti ai nostri occhi con ricchezza di particolari. Non vi è nulla da aggiungere. Godiamoci tutto questo, amore. Tutto e solo per noi», risposi stringendo le sue mani tra le mie.

      Urs ricomparve tenendo in mano due bottiglie, una di vino bianco e l’altra, già aperta in precedenza, contenente un vino piuttosto denso, di un colore rosso molto intenso. Ci spiegò che si trattava di un liquore di more prodotto nella sua tenuta, dalla gradazione alcolica molto forte. Era solitamente utilizzato per “tagliare” altri vini o per preparare dei cocktail, aperitivi o dolci. Raramente veniva bevuto così com’era, anche per via del sapore leggermente acre. Versato circa un centimetro di questo liquore nei bicchieri, riempì il resto del calice con il vino bianco, formando un miscuglio dal colore molto simile al vino rosato. Il sapore pungente ma molto gradevole conservava quasi inalterata la gradazione alcolica del liquore, solo minimamente ammorbidita da quella notevolmente più contenuta nel vino bianco. Doris uscì dalla casa portando in trionfo un vassoio colmo degli stuzzichini di formaggio e pane preparati qualche minuto prima. Dopo gli auguri di rito, cominciammo ad assaporare il tutto, lasciandoci completamente trasportare dai sapori, dagli odori, dal canto delicato e discreto degli uccelli, dal fruscio prodotto dallo strofinio delle foglie degli alberi sospinte dai soffi di un venticello che cominciava a farsi apprezzare, temperando l’aria. Qualche piccola nuvola bianca macchiava il cielo fino a quel momento azzurro, smorzandone una monocromaticità totalmente privata di confini. Discutemmo di molte cose, della nostra vita di città, del nostro lavoro. Urs e Doris ci raccontarono parte del loro passato, illustrandoci i percorsi e le scelte che li avevano condotti lì in quel paradiso. I loro stati d’animo ci arrivavano direttamente al cuore, accompagnati a destinazione dalle loro parole. Amavano quel posto, si sentivano parte di esso. E la luce che brillava nei loro occhi, i loro sorrisi e l’allegria che mostravano in ogni situazione ce lo confermavano ad ogni istante, anche nei giorni che seguirono. Vivevano una vita vera, una vita piena nella sua semplicità. Mai scorderò un’immagine che mi si è incisa a fuoco nella mente mentre guardavo Urs. Teneva il calice mezzo pieno tra le mani, con lo stelo poggiato sul tavolo. Il suo sguardo, perso verso l’orizzonte, regalava un leggero sorriso prodotto dai pensieri che in quel momento gli passavano per la mente. Pensieri sicuramente di delicata importanza, sgomberi da problemi di ogni sorta. Nel bicchiere il sole disegnava macchie di luci e ombre animate dall’ondeggiare del vino sospinto dai movimenti della mano. Urs portava il bicchiere alla bocca senza nemmeno guardarlo, totalmente assorto nei suoi disegni, quasi estraniato. All’opposto Doris parlava senza sosta, solo minimamente interrotta da una sigaretta che aspirava con regolarità.

      Alla fine li salutammo ringraziandoli, per poi ritirarci in casa a riposare un po’ in attesa dell’arrivo della frescura serale. Dopo una sola giornata avevamo già raccolto così tante emozioni da riviverle anche di notte nei nostri sogni.

      

      

      CAPITOLO 3

      L’amicizia è uno dei doni del cielo all’umanità “Le montagne non si incontrano, ma gli uomini sì”.[Samburu, Kenya]

      Tra amici cadono le barriere che di solito chiudono gli individui nel loro piccolo recinto. Non ci sono segreti tra amici: “Se ci si ama, non si nasconde la nudità”.[Mongo, RD. Congo]

      L’oscurità totale della notte lasciava spazio alle tenui luci di una timida alba. Le prime chiazze di una luce priva di sorgente, formate solo dal chiarore che risaliva le colline, a fatica si facevano spazio passando tra le folte chiome degli alberi. Come un lenzuolo, un sottile e uniforme strato di bassa nebbia ricopriva il campo di grano lievemente inumidito dalla rugiada del mattino. Si era creata un’atmosfera tipica dei paesaggi nord europei, quelli che si vedono spesso sulle cartoline e sui libri di fotografia. La chiusa era deserta e il flusso d’acqua attraversante le bocche di scarico era ridotto al minimo. Un leggero venticello manteneva l’aria fresca in quella mattina, sollevando pian piano la nebbia fino a farla scomparire. Le tenere spighe di grano dorato, così riscoperte, erano illuminate dai raggi del sole ormai alto e libero in cielo. Erano solo le sette del mattino ma si percepiva il ritardo che la luce del sole aveva rispetto a quello che vedevo nelle mie mattine milanesi. Un coniglietto selvatico saltellava in modo irregolare sul sentiero, di fronte alla porta di casa. Probabilmente, pensai, era alla ricerca di cibo. Dal frigorifero presi una piccola carota e la posai fuori dalla porta, a terra sullo spiazzo prospiciente la stradina. Lo feci con cautela, perché non si spaventasse e scappasse via. Mi fissava con i suoi piccoli occhi, neri e tondi, il corpo impietrito, pronto a scattare via in fuga se necessario. La mia presenza lo inquietava, era evidente. Tuttavia non se ne andava. Posata la carota, lentamente, indietreggiai senza distogliere il mio sguardo dal suo. Quando fui sufficientemente lontano, invece di prendere la carota scappò via in gran volata. Lì per lì pensai fosse stato disturbato da qualcosa di diverso, forse un rumore che io non avevo percepito o forse un animale che si muoveva nel campo. Rimasi solo a guardare la carota posata a terra, quindi mi girai e tornai in casa, raccontando l’accaduto a Sonia. Incredula si affacciò alla finestra, e vista la carota abbandonata scoppiò in una sonora risata.

      Facemmo colazione in tutta tranquillità, riservandoci tutto il tempo necessario, discutendo su quello che avremmo fatto durante la giornata: perlustrazione della zona in bicicletta, macchina fotografica alla mano, restando a pranzare fuori al sacco in mezzo a uno dei tanti campi variopinti oppure in qualche area di ristoro nei villaggi vicini. Avremmo eventualmente chiesto indicazioni ai pescatori lungo la via. Usciti sul sentiero, mentre chiudevo


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