Peccati Erotici Delle Italiane, Volume I. Giovanna Esse

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Peccati Erotici Delle Italiane, Volume I - Giovanna Esse


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      Lei era bellissima e, per la gioia di Alba, estremamente distratta. Quando sedevano al tavolino delle ghiottonerie, spesso accavallava le opulente gambe, senza curarsi del camice che si alzava e, salendo, a ogni movimento metteva in mostra le calze; sempre diverse, sempre di nuovi colori. Quelle che le piacevano di più erano le nere. Le calze nere parevano più piccole di una misura, la seta era tesa sulla pelle, creando appetitosi chiaroscuri; lo sguardo, ipnotizzato da quella visione, cercava il punto dove il nero deciso dell’orlo merlettato liberava, con uno sbuffo lievissimo, la carne rosea e chiara. Anche quando si adagiava su un basso pouf, sgranocchiando cannellini e Lacrime d’Amore, non era difficile che Alba riuscisse a carpire un’immagine delle sue mutandine, schiacciate tra le cosce.

      La povera fata sedeva li, per non rubare spazio ad Alba a cui, da principessa quale era, era riservato il posto d’onore, sul divano.

      A volte gironzolava per casa, alla ricerca di un granello di polvere “vigliacco”, o di uno dei tanti oggetti che, in quella casa fatata, avevano la terribile tendenza a cadere negli angoli più nascosti; da quando aveva scoperto che, per ritrovarli, la fata si metteva carponi, mostrandole il fondoschiena oppure le poppe gloriose, Alba, pur essendo di indole affettuosa e servizievole, non si offriva mai, come volontaria, per le ricerche. Preferiva godersi ciò che riusciva a vedere… E la fata aveva infinita pazienza e nulla chiedeva alla sua preziosa ospite.

      Per fortuna, tutti i rossori e le vampate peccaminose della ragazza passavano inosservati, tant’è che una volta, fattasi coraggio, Alba, dal gabinetto, chiamò la sua madrina con una scusa e si fece trovare seduta sul vaso, con le sottili gambe dischiuse. Anche allora la fata non disse niente e nulla notò, chiusa in una “casta” indifferenza. Al contrario, la principessa per la vergogna sopravvenuta dopo l’eccitazione, cercò una scusa frettolosa per tornarsene a casa e, per alcuni giorni non si fece più sentire.

      Al terzo giorno fu la fata a chiamare e tutto riprese come prima.

      4 – L’istitutrice: fascino e polso fermo

      (Realtà)

      Flora credeva di impazzire, tanto la situazione era divenuta insostenibile. Nonostante le promesse fatte a se stessa e alla madre di Nicòle, la presenza della ragazza era diventata troppo intrigante, eppure opprimente per lei. Il piacere che provava, a sentirsi osservata di nascosto da quella piccola troia, le rimescolava il sangue nelle vene e, appena la vedeva o la pensava, si ritrovava eccitata. Dal primo istante in cui Nicòle giungeva a casa, la sua parte più recondita iniziava a sbavare piacere; desiderava l’orgasmo per ore, mentre le sue guance avvampavano e sudava tra i seni. La voleva! E, naturalmente, alla fine restava frustrata dal “nulla di fatto” che, essa stessa, si era imposta solennemente. Avrebbe voluto sfogare su quel corpo delicato l’infinito desiderio.

      Il primo giorno che Nicòle disertò le lezioni, Flora respirò e, dopo settimane di stress, le sembrò di riprendere il controllo della sua vita e della sua casa. Era diventata una piccola despota; una vera canaglia, quella sua principessa! Appena scoprì di poter comandare, iniziò a tiranneggiarla… (che meravigliosa sensazione)

      Il secondo giorno s’immalinconì. Le mancava. Voleva essere maltrattata ancora da quell’impertinente spiona. Le mancavano i suoi occhioni che le fissavano le cosce… E sì che Nicòle aveva davvero esagerato: farsi trovare nuda, sul gabinetto, ancora bagnata.

      Pensieri deliziosi l’avevano attraversata, come correnti galvaniche scintillanti; ma doveva comportarsi da adulta, responsabile. Doveva resistere!

      Quella sera si decise e chiamò un suo amico, per dare sfogo al vulcano della libidine, ma l'uomo era già impegnato; il fatto che lui non potesse raggiungerla la rese ancora più furiosa.

      Si frugò nell’intimità, meccanicamente, sul letto, ma il piacere la rese ancora più eccitata e incapace di vincere il desiderio di Nicòle. La sera del terzo giorno la fece finita: telefonò.

      Â«Eppure ero certa che ti avesse avvisato» rispose Franca, perplessa «i giovani di oggi non hanno più nessun rispetto.»

      Â«No, lasciala stare, sono ragazzi, magari qui da me si annoia. Purtroppo non ho vicini con ragazzi della sua età. La capisco poverina.» la giustificò Flora.

      Â«Aspetta adesso la chiamo, vediamo come si sente.» Poi Flora, trepidante e impacciata, udì le voci lontane di Nicòle e della madre:

      Â«Ma che ti salta in mente? Perché non hai avvertito Flora che stavi male?»

      Â«Uffa, ma io non stavo bene, pensavo che glielo avessi detto tu.»

      Â«Sei una gran maleducata. Adesso vai al telefono e scusati…» Seguirono altre parole che non fu in grado di sentire. Dopo poco arrivò Nicòle:

       «Scusa!» esordì.

      Â«E di che cosa, tesoro mio? Mi dispiace se sei stata poco bene» disse raggiante Flora «ma adesso come va?»

      Â«Sto bene» continuò Nicòle, lievemente laconica, poi si sentì confabulare.

      Â«Dice mamma: se non disturbo, posso continuare a venire da te?»

      Flora non seppe dissimulare la gioia che le procurarono quelle parole, così con la voce rotta dalla trepidazione, rispose:

      Â«Lo sai, Nicòle, ormai questa è casa tua. Devi decidere tu, se vuoi… che ci vediamo ancora.»

      Â«Sì. Voglio venirci ancora» disse la giovane.

      Il giorno dopo, quando entrò nella casa, un profumo fragrante di torta di mele e cannella la pervase. Flora le andò incontro e si abbracciarono senza parlare. Da allora però, non si sedette più sul pouf, ma sul divano, di fianco a Nicòle.

      5 - Incantesimo perverso

      (Fiaba)

      Ormai il ghiaccio era rotto e la Fata di Ferro non teneva più solo per sé i suoi segreti. Anzi, burrosa e languida, aveva deciso di darsi alla principessa Alba, anima e, se possibile, pure corpo.

      Ad Alba non sembrava vero: il pomeriggio, dopo i compiti, facevano una merendina e chiacchieravano come due amiche del cuore. E visto che Alba non era mai stata così brava e volenterosa, nello studio, alla fine, arrivava il premio. Il premio era rappresentato dalla confidenza e dall'intimità.

      La fata, rassegnata, le si donava completamente, affinché soddisfacesse la sua lussuria e i suoi sentimenti lascivi, di giovane curiosa e impertinente. Allora la screanzata si sedeva accanto a lei.

      Spesso si servivano di un piccolo plaid con la fantasia scozzese, in quei casi Alba gioiva ancora di più. Guardavano la televisione o Flora leggeva qualcosa, nelle lunghe serate invernali; si piazzava sul divano e seguiva con finta attenzione qualsiasi programma, pur di starle vicino.

      Le loro gambe, celate sotto la coperta, iniziavano a strusciarsi, il suono del tessuto che frusciava eccitava entrambe. Ad Alba non mancava mai la scusa adatta: ora per lo spasso, ora per la paura, ogni pretesto era buono per stringersi alla Fata di Ferro. Allora, specialmente se protette dal plaid di lana, le piccole dita sottili cominciavano a frugare. La ragazza abbracciava la donna in cerca di protezione e ne esplorava ogni rotondità, ogni curva. Vagava sul cotone del camice, a volte perdendosi tra roselline sul fondo nero, altre, cogliendo le margherite della vestaglia lilla; e più la Fata taceva, più le mani si prendevano confidenze.

      Quando cominciava, voleva sfiorare con delicatezza e fingendo poco interesse: carezze distratte, occasionali, come se nascessero spontanee e senza scopo. Ma poi l’eccitazione aumentava; i movimenti diventavano sempre più rabbiosi, sconnessi, convulsi. Quelle mani “possedevano”, letteralmente, il corpo della grossa


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