La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli

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La Corona Bronzea - Stefano Vignaroli


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nuovo baluardo a difesa del porto. Fatto sta che, dal momento che il Duca lo aveva salvato dal patibolo con un preciso scopo, quello di inviarlo al servizio dei Malatesta di Rimini, si era aspettato di dover abbandonare quel luogo di ozi molto prima. E invece, sembrava che il Duca ci prendesse gusto a non riceverlo, quando per un motivo, quando per un altro, e a continuare a tenerlo in mezzo a quei barbari, che nulla avevano a che spartire con lui, con la sua nobiltà, con il suo lignaggio, con la sua cultura. Non aveva trovato nemmeno un libro da leggere per poter trascorrere il tempo in maniera degna, e l’unico passatempo era quello di allenarsi a combattere, cosa che gli era venuta davvero a noia. L’unico suo conforto era l’amicizia di Gesualdo che, nonostante le umili origini, riteneva un compagno fedele e saggio nel dispensare consigli. Il fatto, ora, di camminare a fianco a lui, lo rincuorava e infondeva nel suo animo il coraggio di cui aveva bisogno per affrontare l’eventuale colloquio con il vecchio Duca di Montacuto.

      «Finalmente ci siamo. È di sicuro giunta l’ora di partire alla volta dei territori del Montefeltro, di combattere sul serio, di avere ai propri ordini uomini valorosi», diceva Andrea al suo amico, percorrendo un lungo corridoio, in cui i suoni dei passi erano attutiti da tappeti disposti sopra il pavimento, e ai rumori e alle voci non era consentito rimbombare, grazie a una serie di arazzi che tappezzavano le pareti. «Farò tutto quello che mi sarà ordinato, ma su un punto, su un solo punto, sarò intransigente con il Duca. Tu, Gesualdo, dovrai accompagnarmi. Sarai la mia guida e il mio braccio destro. Non voglio nessun altro accanto a me nel tragitto da qui a Rimini.»

      «Mio giovane amico, tu sei forte e robusto, mentre io sono un vecchio invalido. Non credo che il nostro Signore acconsentirà a questa tua richiesta. Anche se non mi convoca ormai da tempo e non mi ha più affidato missioni dopo quella che entrambi conosciamo, il solo sapermi lontano da qui potrebbe essere motivo di cruccio per il Duca. Dai ascolto. Stai zitto e non avanzare sciocche pretese!»

      «Stai zitto, tu! Sarai vecchio e invalido, ma combatti molto meglio e sei molto più astuto di un giovane guerriero. E poi...»

      Le parole gli si smorzarono in bocca, perché erano arrivati alla fine del corridoio. La porta spalancata di fronte a loro mostrava la sala da pranzo, dove una lunga tavolata era imbandita con ogni ben di Dio. Due riverenti servitori tenevano aperte le pesanti tende di velluto rosso che fungevano da riquadro all’uscio. Al loro passaggio si proferirono in un profondo inchino, poi richiusero le tende una volta che gli ospiti ebbero varcato la soglia. Andrea e Gesualdo guardarono con meraviglia gli arrosti di pavoni, fagiani e faraone, le patate arrosto e le verdure lesse. Tutti i piatti erano abbelliti da decorazioni, in un tripudio di colori raro a vedersi. Per non parlare degli odori, che giungevano alle narici di Andrea a ricordargli i profumi che solo nella casa paterna aveva a suo tempo apprezzato, e che aveva quasi del tutto dimenticato. Il vino nelle brocche era rosso, del tipico colore scuro del vino del Monte Conero. Andrea avvertì una leggera gomitata, preludio del consiglio sussurrato dal Mancino.

      «Vacci piano con il vino. Per uno come te, abituato a Verdicchio e Malvasìa, il Rosso Conero può essere pericoloso. Va subito alla testa!»

      «Il momento favorevole potrebbe non durare a lungo, e quindi dobbiamo agire ora a sostegno del nostro amico Sigismondo Malatesta», iniziò a dire Berengario rivolto ai suoi ospiti, mentre addentava un coscio di pollo, tenendolo per l’osso, mentre l’unto dalla mano gli scivolava lungo l’avambraccio. «Ora che Leone X è morto, Urbino e il Montefeltro vanno strappate ai Medici e alla Santa Sede! Entro breve tutti i territori delle Marche, compresa la Marca Anconitana, dovranno essere riportati ai giusti equilibri. Sottomessi sì, allo stato della Chiesa, ma pur sempre con governi civili indipendenti. Purtroppo, il Duca Francesco Maria Della Rovere sembra essersi ritirato nella sua Senigallia, rinunciando a riconquistare il Ducato di Urbino, toltogli da Cesare Borgia e poi passato al nipote di Papa Leone X. Inoltre, i territori di Jesi sono nel più totale abbandono. Dopo la morte del Cardinal Baldeschi, è stato inviato un legato pontificio, che sembra non abbia tanto intenzione di governare la città, quanto di finire di ridurla allo stremo, alla miseria, approfittando della vacanza di un governo civile.»

      A queste ultime parole, il cuore di Andrea fece un balzo. Il governo civile della città di Jesi era suo di diritto. Se il Duca di Montacuto voleva ristabilire gli equilibri politici, sarebbe bastato che lo avesse rinviato nella sua città, e ci avrebbe pensato lui a mettere a posto le cose e far rientrare nei ranghi questo famigerato legato pontificio. Che senso aveva mandarlo a combattere per il Signore di Rimini? Ma forse gli intenti del Montacuto erano ben altri. Forse gli avrebbe fatto comodo mantenere la situazione di disordine nella vicina Jesi, ora che aveva fatto fuori il Consiglio degli Anziani e aveva preso in mano il governo della Città e della Marca Anconitana. Magari, all’ultimo momento, avrebbe girato le spalle a tutti e avrebbe venduto Ancona al Papa per qualche decina di migliaia di fiorini d’oro. O forse si sarebbe alleato segretamente con il Duca della Rovere e avrebbe fatto fronte comune con lui, contro il Papa e contro lo stesso Malatesta, affinché quest’ultimo non avesse esteso le sue mire espansionistiche verso Sud. Chissà! Ad Andrea non sarebbe dispiaciuto ritornare a Jesi e poter rivedere la sua amata. Ma se neanche era stato informato della morte del suo giurato nemico, il Cardinal Baldeschi, figuriamoci se fosse passato per la mente del Duca farlo ritornare in patria. Per cui Andrea decise di rimanere in silenzio e seguitare ad ascoltare il ragionamento del Duca Berengario, portando distrattamente alla bocca alcune patate e assaporando la loro delicata bontà. Solo fino a pochi anni prima non si conosceva neanche l’esistenza di questo delizioso tubero, che era stato da poco importato dal Nuovo Mondo. Un servo gli versò del vino rosso nella coppa e lui lo trangugiò per accompagnare le patate lungo il loro percorso verso lo stomaco.

      «Il Papa da poco nominato, Adriano VI, è un burattino, un fantoccio in mano all’oligarchia ecclesiastica, che ha fatto sì di spazzare via la casata dei Medici, che stavano prendendo troppo potere, finanche a Roma. Non credo che durerà a lungo, prima che Giulio de’ Medici escogiti qualcosa per farlo fuori e riprendere le redini dello Stato Ecclesiastico. Per cui dobbiamo sfruttare il momento, prima che sia troppo tardi. Domani mattina di buon ora, Andrea, partirai per Pesaro, dove prenderai il comando di una guarnigione dell’esercito di Sigismondo Malatesta. Guiderai questa guarnigione verso Urbino, mentre il Malatesta raggiungerà la stessa città da Nord con il resto del suo esercito, attraverso i territori del Montefeltro. Stringerete Urbino in una morsa, da nord e da sud e, sia Medici che occupano il Montefeltro, che il conte Boschetti che governa Urbino su incarico della Santa Sede, non avranno scampo. Tu, Gesualdo, accompagnerai Andrea fino a Pesaro. La strada è lunga e rischiosa, e tu conosci le vie migliori da percorrere. Farai in modo che Andrea giunga a destinazione il prima possibile. Poi tornerai subito indietro. Che non venga a sapere che per qualche motivo, valido o meno che sia, tu abbia seguito Andrea in battaglia. Entro quattro giorni ti rivoglio qui a castello, altrimenti…», e si passò due dita a strisciare la pelle del collo, simulando quello che avrebbe fatto la lama di un coltello premuto contro la giugulare.

      Anche cercando con se stesso di non ammetterlo, Andrea aveva scorto brillare una luce di tradimento negli occhi del Duca, mentre questi parlava. Non si era mai fidato di lui, e ora anche meno. Quando poi lui e Gesualdo furono congedati e, uscendo, incrociarono due brutti musi di sgherri, che non si erano mai visti prima a corte, i timori di Andrea furono ancor più accentuati. Per fortuna il Mancino, in cui aveva cieca fiducia, nelle ore e nei giorni a venire, gli sarebbe stato accanto a difenderlo a costo della sua stessa vita.

      «Secondo te chi sono quei due, Gesualdo? Sicari, forse? Tagliagole?»

      «Non saprei. È la prima volta che li vedo. Ma le loro facce non ispirano alcunché di buono. Ma non parliamone qui. Vieni, andiamo a scegliere i cavalli per domattina. Nelle stalle potremo parlare tranquillamente.»

      Quando Matteo e Amilcare furono dentro il salone, il Duca fece sprangare la porta, poi batté le mani. Subito alcune ancelle, in abiti colorati, dalle trasparenze che mettevano ben in evidenza tutte le loro grazie femminili, raggiunsero la sala da una porta secondaria e iniziarono a danzare sulla base di una melodia suonata da invisibili musicanti, nascosti chissà dove. Berengario aveva più di sessant’anni e, in vita sua, aveva avuto ben tre mogli, tutte scomparse in giovane età e in circostanze misteriose. Qualcuno, a corte, mormorava sul fatto che le avesse fatte uccidere lui stesso, una volta che gli erano venute a noia. Era sempre stato un lussurioso, oltre


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