Obiettivo Zero . Джек Марс

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Obiettivo Zero  - Джек Марс


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qui da quella porta. Una volta che si sarà chiusa alle mie spalle, conterai lentamente fino a trenta. Poi andrai nella mia stanza. Elena è viva ma ha bisogno di aiuto. Dopodiché potrai fare qualsiasi cosa tu sia addestrata a fare in una situazione di questo tipo. Hai capito?”

      L’infermiera fece un secco cenno affermativo con il capo.

      “Ho la tua parola che seguirai queste istruzioni? Preferisco non uccidere le donne quando posso evitarlo.”

      Lei annuì di nuovo, più lentamente.

      “Bene.” Rais oltrepassò la stazione, togliendosi nel frattempo il badge dalla casacca dell’ospedale per passarlo nello slot a destra della porta. Una piccola luce rossa divenne verde e la serratura si aprì. Con un ultimo sguardo a Mia, che non si era mossa, spinse la porta e aspettò che gli si richiudesse alle spalle.

      Poi corse.

      Si affrettò lungo un corridoio, infilandosi la Sig nei pantaloni. Prese le scale per il primo piano due gradini alla volta, ed emerse da una porta laterale nella notte svizzera. L’aria fresca lo accolse come una doccia purificatrice, e lui si prese un momento per respirare liberamente.

      Gli tremavano le gambe, minacciando di cedere di nuovo. L’adrenalina della fuga si stava esaurendo in fretta, e i suoi muscoli erano ancora deboli. Prese la chiave elettronica di tasca e premette il pulsante rosso per le emergenze. Sentì accendersi l’allarme di un SUV e vide lampeggiare le sue luci. Lo spense subito e lo raggiunse di corsa.

      Avrebbero cercato l’auto rubata, era ovvio, ma tanto non l’avrebbe usata a lungo. Presto avrebbe dovuto abbandonarla, trovare nuovi abiti, e il mattino seguente si sarebbe diretto verso l’Hauptpost, dove aveva tutto il necessario per scappare dalla Svizzera con una falsa identità.

      E quanto prima avrebbe trovato e ucciso Kent Steele.

      CAPITOLO QUATTRO

      Reid non era nemmeno uscito dal vialetto d’ingresso per andare a incontrarsi con Maria, che già aveva chiamato Thompson per chiedergli di tenere d’occhio casa Lawson. “Ho deciso di concedere un po’ d’indipendenza alle ragazze, stasera,” spiegò. “Non starò via a lungo. Ma in ogni caso, terrebbe gli occhi aperti?”

      “Certo,” concordò l’uomo anziano.

      “E, uhm, se sente qualsiasi cosa di strano, ovviamente, vada a controllare.”

      “Lo farò, Reid.”

      “Lo sa, se non riesce a vederle o qualcosa del genere, può bussare alla porta, o chiamarle a casa…”

      Thompson ridacchiò. “Non preoccuparti, ho la situazione sotto controllo. E anche loro. Sono adolescenti. Hanno bisogno di un po’ di spazio di tanto in tanto. Goditi il tuo appartamento.”

      Tra lo sguardo attento di Thompson e la determinazione di Maya a dimostrarsi responsabile, Reid riteneva di poter stare tranquillo, sapendo che le ragazze sarebbero state al sicuro. Ovviamente, una parte di lui sapeva che era solo l’ennesimo esempio delle sue acrobazie mentali. Ci avrebbe continuato a pensare per tutta la notte.

      Dovette usare il GPS sul telefono per trovare il posto. Non conosceva ancora bene Alexandria o i suoi dintorni. Maria invece era già pratica, grazie alla sua vicinanza a Langley e al quartier generale della CIA. Nonostante quello, la donna aveva scelto un posto in cui neanche lei era mai stata, probabilmente per giocare alla pari, per così dire.

      Durante il tragitto sbagliò due svolte nonostante la voce del GPS gli dicesse dove andare e quando. Stava pensando allo strano flashback che ormai aveva avuto due volte, prima quando Maya gli aveva chiesto se Kate sapesse di lui, e di nuovo quando aveva sentito l’odore della colonia che la sua defunta moglie aveva amato. Continuava a tormentarlo, tanto che persino mentre cercava di prestare attenzione alle indicazioni stradali continuava a distrarsi.

      Il motivo per cui era così strano era che ogni altro ricordo di Kate era estremamente vivido nella sua mente. A differenza di Kent Steele, lei non era mai svanita per davvero; Reid si ricordava il loro primo incontro, gli appuntamenti, le vacanze e l’acquisto della loro prima casa. Si ricordava il loro matrimonio e la nascita delle figlie. Ricordava persino le loro discussioni, o almeno così aveva creduto.

      L’idea stessa che avesse perduto una qualsiasi parte di Kate lo turbava. Il dispositivo di soppressione della memoria aveva già dimostrato di avere qualche effetto collaterale, come l’occasionale emicrania provocata da un ricordo ostico. Era una procedura sperimentale, e il metodo di rimozione era stato tutt’altro che professionale.

      E se mi avesse rubato di più del mio passato come agente Zero?

      Quel pensiero non gli piaceva affatto. Era una brutta china; non ci sarebbe voluto molto perché cominciasse a credere di aver perso anche dei ricordi delle sue ragazze. E la cosa peggiore era che non aveva modo di accertarsene senza recuperare del tutto la sua memoria.

      Era troppo, e sentì salirgli di nuovo il mal di testa. Accese la radio e alzò il volume per cercare di distrarsi.

      Il sole stava calando quando entrò nel parcheggio del ristorante, un gastropub chiamato The Cellar Door. Aveva qualche minuto di ritardo. Uscì rapidamente dall’auto e corse verso l’ingresso dell’edificio.

      Poi rimase di sasso.

      Maria Johansson era una svedese-americana di terza generazione, e come copertura per la sua vera attività di agente della CIA faceva la contabile per l’amministrazione pubblica di Baltimora. Secondo Reid avrebbe dovuto essere una fotomodella per le copertine delle riviste, o magari per i paginoni centrali. Intorno al metro e ottanta, era alta quasi quanto lui, con lunghi capelli lisci e biondi che le ricadevano con eleganza sulla schiena. I suoi occhi erano color grigio ardesia, e molto intensi. Nell’aria fresca della primavera, indossava solo un semplice abito blu scuro con una profonda scollatura a V e uno scialle bianco sulle spalle.

      La donna lo notò mentre lui si avvicinava e sorrise. “Ehi. Da quanto tempo.”

      “Io… wow,” esclamò Reid. “Voglio dire, uhm… sei bellissima.” Gli venne in mente che non l’aveva mai vista truccata. L’ombretto blu era in tinta con l’abito e faceva sembrare i suoi occhi quasi luminescenti.

      “Neanche tu sei male.” Maria annuì con aria d’approvazione per la sua scelta di vestiario. “Vogliamo entrare?”

      Grazie, Maya, pensò Reid. “Sì, certo.” Afferrò la maniglia della porta e la tenne aperta per lei. “Ma prima di iniziare, avrei una domanda. Cosa accidenti è un ‘gastropub’?”

      Maria scoppiò a ridere. “Credo che ai nostri tempi lo definissimo una bettola, solo che ora servono cibo più alla moda.”

      “Chiaro.”

      L’interno era intimo, se non addirittura piccolo, con mura di mattoni e travi di legno esposte sul soffitto. L’illuminazione veniva da lampadine in stile vintage, che contribuivano a creare un ambiente caldo e circoscritto.

      Perché sono nervoso? pensò mentre si accomodavano. Conosceva quella donna. Insieme avevano impedito a un’organizzazione terroristica internazionale di assassinare centinaia, se non migliaia, di persone. Ma quella era una situazione diversa, non era un’operazione o una missione. Era piacere, e in qualche modo ciò faceva la differenza.

      Conoscila meglio, gli aveva detto Maya. Fai del tuo meglio per essere interessante.

      “Dunque, come va il lavoro?” finì per domandarle. Dentro di sé gemette per quel tentativo poco riuscito.

      Maria sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto. “Sai che non posso parlarne.”

      “Certo,” replicò Reid. “Ovviamente.” La donna era un agente operativo attivo della CIA. Anche se lui fosse stato un agente attivo, non avrebbe potuto condividere i dettagli di un’operazione a meno che non stessero lavorando insieme.

      “E tu?” chiese Maria. “Come va con il nuovo lavoro?”

      “Non male,” ammise lui. “Sono un associato, quindi per ora è part-time, ho solo qualche lezione alla settimana. Un po’ di compiti da correggere e cose del genere. Ma


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