Il Terrore Privato Il Terrore Politico. Guido Pagliarino

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Il Terrore Privato Il Terrore Politico - Guido Pagliarino


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parroco era tornato una decina di minuti dopo e s’era seduto sorridente accanto al mio amico. Evidentemente Evaristo, o qualcuno del suo ufficio, aveva sostenuto la tesi di Vittorio. Il prete non ne aveva però detto nulla, aveva riferito piuttosto d’aver chiamato al telefonino Attilio Corona suggerendogli di venire a parlare direttamente col questore, dato che viveva nei paraggi: doveva aver stimato preferibile che fosse direttamente l’interessato a colloquiare, riservandosi lui, come padrone di casa, d’intervenire, all’evenienza, in veste di arbitro.

      Nell’attesa, forse solo per far passare i minuti necessari ma apparendo a Vittorio un po’ indiscreto, don Colamonti gli aveva rivelato ch’egli stesso aveva fatto dono al Corona del cellulare, scegliendolo fra rimanenze, ormai obsolete perché di notevole dimensione, in liquidazione presso un vicino negozio, e ch’era sempre lui a pagargli le ricariche, essendo l’architetto uno dei membri del Consiglio Pastorale e della San Vincenzo e venendo utili, a volte, contatti telefonici. Il parroco aveva poi preso a parlare banalmente del tempo e, poco dopo, avevano sonato alla porta.

      Come ci s’aspettava, era Attilio Corona.

      Il mio amico s’era alzato e Don Giulio aveva fatto le presentazioni. Vittorio s’era un poco stupito della vigorosa stretta di mano dell’architetto e aveva pensato che il passato ictus si fosse sostanzialmente risolto, sebbene restasse sul Corona, quale testimonianza dell’insulto cerebrale, una smorfia fissa sull’estremo sinistro della bocca.

      Don Giulio aveva preso la parola: “Ora, questore D’Aiazzo, lei potrà chiedere personalmente all’amico Attilio; se però non le spiace, solo alla mia presenza”.

      â€œCerto, reverendo; come le avevo anticipato ero venuto anche per essere introdotto all’architetto, e la ringrazio per aver stretto i tempi”.

      Il parroco aveva fatto un cenno d’approvazione col capo e aveva invitato i due a sedersi, quindi s’era scostato d’alcuni metri, restando in piedi a portata d’orecchio: “Prego, parlino liberamente”.

      â€œSenta, architetto…”

      â€œâ€¦solo dottore, lo preferisco, questore D’Aiazzo: non sono mai stato iscritto all’albo, perché per la mia attività d’impresa non sarebbe servito”.

      Capisco. Senta, dottor Corona, la domanda potrebbe apparirle un po’ personale, ma può riguardare la nostra ricerca: mi pare che lei sia abbastanza in forze, però non ci risulta che abbia mai più lavorato dopo l’ictus, sebbene lei viva piuttosto… mi perdoni… dimessamente”.

      Silenzio.

      â€œMi scusi ancora, come mai non aveva pensato d’intraprendere, con la sua laurea, la libera professione, quando s’era rimessa in salute? Magari anche solo come assistente in uno studio tecnico: così, tanto per arrotondare”.

      â€œNon avrei potuto”.

      â€œSì, dottor D’Aiazzo, è così”, s’era messo di mezzo don Colamonti, temendo forse chi sa quali sospetti verso quel suo parrocchiano che doveva sentire come amico e protetto. S’era rivolto al Corona: “Posso dire io, Attilio?”

      L’altro aveva fatto sì con la testa.

      Il parroco aveva proseguito: “L’ictus ha lasciato postumi, anche se non evidenti, e proprio per questi Attilio ottenne la pensione d’invalidità: gli capita, ancor oggi, di perdere conoscenza, senz’avvisaglie. Può succedere in due modi, come ho constatato io stesso: o che egli semplicemente svenga, rischiando di contundersi se non c’è nessuno accanto a trattenerlo dallo stramazzare, oppure che per un certo tempo resti in istato di estraniazione, pur rimanendo in piedi e continuando a interagire col mondo”.

      â€œVale a dire senza perdere i sensi, ma non essendo presente a sé stesso”.

      â€œSì, e non avendone poi alcuna memoria, come se fosse caduto in trance. I casi peggiori sono forse proprio questi, perché potrebbe farsi anche più male, persino restare ucciso se, per esempio, essendo in strada finisse sotto un’auto o un tram”.

      â€œI medici cosa ne dicono?”

       “Nessuna cura”, aveva ripreso la parola l’interessato.

      Gli aveva chiesto Vittorio: “Dopo che torna in sé, lei non rammenta nemmeno qualcosina, che so, anche solo un flash d’immagini o un quid di suoni?”

      â€œDopo esser tornato dal rapimento, come lo chiamo io, non ricordo assolutamente niente. Lei capisce che mi sarebbe impossibile conservare un lavoro; ci avevo provato, sa? dopo la morte di mia madre, impiegandomi presso un geometra, ma… insomma, era stato un dramma. M’ero dimesso io stesso, per non mettere in imbarazzo il principale e i colleghi. A parte queste cose personalissime, questore D’Aiazzo” – aveva calcato su personalissime mentre, per un attimo, gli occhi gli erano divenuti non belli – “io non so quanto possa servire, a loro della Polizia, parlare con me dei delitti di quell’assassino seriale: quello che so sulle vittime, l’ho già detto al pubblico ministero. Comunque, sono disposto a risponderle, ma lei mi chieda con precisione”: aveva parlato in tono deciso, come l’uomo abituato a dar ordini che doveva essere stato ai tempi della sua attività d’impresa.

      â€œCom’erano i vostri rapporti col personale?”

      â€œNon erano soddisfacenti. Come avevo già detto al giudice, il personale era negligente, sebbene noi facessimo appieno il nostro dovere di legge”.

      â€œQuei cinque uccisi dal Mostro erano solo negligenti, oppure indisciplinati o… persino qualcosa di peggio? Sappiamo ch’erano anni di contestazione durissima nelle aziende”.

      â€œSenta, questore, magari le dico prima qualcosa sulla mia famiglia, così capirà meglio”.

      â€œCasata ottima!” non s’era trattenuto il parroco.

      â€œTi ringrazio, don Giulio. Ebbene, questore, mio padre, orfano di padre artigiano morto in un incidente sul lavoro, aveva dovuto iniziare a lavorare all’età di dodici anni, come apprendista e poi come muratore presso uno zio, piccolo artigiano edile. Però suo desiderio era salire e, stringendo i denti, aveva studiato da geometra frequentando una scuola serale. Nonostante gli ostacoli, era giunto al diploma a soli diciannove anni. Ne era seguito un impiego municipale conquistato per concorso. L’aveva però dovuto lasciare quasi immediatamente, perché era stato chiamato alle armi con la propria leva. S’era ormai in guerra ed egli aveva servito in Sicilia in una delle batterie costiere, come sottotenente di complemento. Nel luglio 1943, durante lo sbarco anglo americano, era stato fatto prigioniero con tutto il suo reggimento e relegato in un campo del Texas, da cui era stato rimpatriato solo a fine guerra, riprendendo, com’era nel suo diritto, il proprio posto nel Comune di Torino. Era stato all’inizio del 1947 che mio padre aveva conosciuto mia madre, durante una serata a casa di comuni amici. Mamma diceva ch’era stato immediato l’innamoramento fra papà e lei, seguito dopo breve tempo dalla decisione di sposarsi. Intanto mio padre aveva cambiato lavoro, assunto come direttore tecnico dalla piccola azienda che sarebbe divenuta quella di famiglia. Mia nonna paterna era ormai morta, fin dai primi giorni di guerra, mitragliata per strada dal pilota d’uno di quei caccia-cecchini francesi che la propaganda fascista chiamava con dileggio i Pippo, ma che facevano non poco male agl’innocenti civili. Anche la nonna materna era rimasta uccisa in guerra, sotto il gran bombardamento di Torino nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1943, quando mia madre aveva da poco compiuto i vent’anni. Solo il nonno materno, direttore di banca, era sopravvissuto al conflitto, ma era poi mancato d’infarto l’anno successivo al matrimonio dei miei e mia madre ne aveva ereditato un discreto patrimonio: era il 1947. Due anni dopo, ero appena nato io, il proprietario della ditta dove lavorava papà aveva deciso di cederla e, grazie al capitale della mamma e a mutui bancari, i miei genitori erano


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