Il Quadriregio. Frezzi Federico

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Il Quadriregio - Frezzi Federico


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se non ch'e' si gittò alla supina:

       per questo il colpo andò da lui rimosso.

      40 Su ratto si levò e con ruina

       il folgore gittò, il qual la spada

       corrode e nulla fa alla vagina,

      ch'ello è fiamma sottile e fa che vada

       dentro alli pori e ciò che non ha poro,

       45 cosí disfá, come il sol la rugiada.

      Questo di piombo le saette e d'oro

       fuse nella faretra, e smunse e róse

       ciò che v'avea di metallin lavoro.

      Quando Cupido le polse penose

       50 volle trar fuor per trarre un'altra volta,

       nulla trovò, mentre sú la man pose.

      Onde ei, scornato e con furia molta:

       —Io ho l'altr'arme—disse—e 'l foco sacro:

       quest'arme a me da te mai non fia tolta.—

      55 Cosí dicendo, furibondo ed acro

       corse in Vulcano e sí gl'incese il mento,

       che 'l volto d'ogni barba li fe' macro.

      E, di questa vendetta non contento,

       col foco s'avventò nelli ciclopi;

       60 e, poi che 'l capo incese a piú di cento:

      —Tornate alle caverne come topi

       —diceva a lor,—tornate, o turba inerte,

       o falsi e vili e neri quanto etiòpi.—

       p. 72

       Vulcano, in questo, sú a braccia aperte,

       65 fuggendo, salse al regno di Iunone,

       ove il vapore in saette converte.

      Ma dietro a lui, leggier come un falcone,

       andò Cupido, e mai corse sí ratto

       dall'arco suo scoccato verrettone.

      70 E disse a lui:—Vulcan, non verrá fatto

       l'avviso tuo: farò che le saette

       far non potrai per me a questo tratto.—

      Cosí dicendo, tutte nubi umette

       'sciuccòe col foco e tanto consumolle,

       75 che 'ntorno al caldo l'umido non stette;

      ché, quando è consumato l'umor molle,

       accendersi non può 'l secco vapore,

       sí che Vulcan non fece quel ch'e' volle.

      Per questo cominciò con gran rumore

       80 a gridar forte, chiamando difese

       contra Cupido, stimol dell'amore.

      Allora Venus sue braccia distese

       al cielo e disse con parol divote

       al sommo Iove, tanto ch'e' la 'ntese:

      85 —Guarda il vecchio marito, che non puote

       piú difensarsi contro il mio figliuolo:

       vedi ch'e' l'ha percosso e che 'l percote.

      Tu sai che, quando il giganteo stuolo

       volle pigliar il cielo e discacciarte,

       90 piú che null'altro t'aiutò ei solo.

      E fece le saette con sua arte:

       con quelle, o Iove, tu gettasti a terra

       li gran giganti con le membra sparte.—

      In men che alcun non apre gli occhi o serra,

       95 vidi Iove discender giú 'n quel loco,

       ove Cupido a Vulcan facea guerra.

      —Cessa—disse al fanciullo—il sacro foco;

       Amor, se pensi quanto l'hai feruto,

       tu dirai ch'egli è troppo, e non è poco.

       p. 73

       100 E s'egli avesse a te ferir voluto,

       come potea, nella tua persona,

       nullo al suo colpo aver potevi aiuto.—

      A questa voce del signor che tona,

       cessò il foco Cupido e reverente

       105 disse al padrigno:—O padre, a me perdona.—

      Nulla cosa a sdegnarsi è piú fervente

       che 'l buon Amore, e nulla cosa ancora

       si placa e torna piú leggeramente.

      Posta la pace, si partí allora

       110 colle sue ninfe Iove e suoi satelli,

       de' quali il regno suo in ciel s'onora.

      Ma pria la vita a Taura, ed i capelli

       rendé a Vulcano, che parea un menno,

       ed a Cupido i dardi orati e snelli.

      115 Poiché i duo guerreggianti pace fenno,

       Vulcan disse all'Amor:—Perché sí rio

       ver' me se' stato e con sí poco senno?

      Se non che, quando a te saetta' io,

       trassi come a figliuol, non a figliastro:

       120 tu non scampavi mai dal colpo mio.

      E provato averesti ch'io so' il mastro

       di saettar e che non si può opporre

       a me mai scudo, unguento ovver impiastro.

      Io son che getto a terra le gran torre

       125 e li gran monti, e che soccorsi a Iove,

       quando i giganti vòlsonli 'l ciel tôrre.

      Della saetta mia, quando si move,

       i grandi effetti e le varie ferite,

       nulla è filosofia che le ritrove.—

      130 Rise Cupido alle parole udite

       e fe' come fa alcun, che par ch'assenta

       a quel che non è ver, per non far lite.

      E, come aquila fa, quando s'avventa

       alla sua preda rapace e feroce,

       135 ch'ali non batte, perché non si senta;

       p. 74

       cosí ciascuno ingiú venne veloce

       alla dea Venus. Benigna l'accolse

       e poi a Vulcan proferse questa voce:

      —Assai, marito mio, il cor mi dolse,

       140 quando tu fulminasti il dolce figlio

       e che guastasti le su' orate polse.

      Ma piú mi dolse che la barba e 'l ciglio

       egli arse a te e che con tanta asprezza

       nell'aer su ti pose a tal periglio.

      145 Or della doglia io sento gran dolcezza,

       da che tra voi è la concordia posta,

       la qual prego che duri con fermezza.—

      Vulcan non fece a lei altra risposta

       se non che con l'Amor volea la pace;

       150 ché la sua sposa, che gli stava a costa,

      piú 'l riscaldò che 'l foco, ov'egli giace,

       e, se non pel figliastro, facea forse

       cosa ch'è turpe e con beltá si tace.

      Per questo si partí e su


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