Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1 - Edward Gibbon


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ed uomini stati giudicati degni dell'Impero; e la noia di una penosa malattia lo rendè, in ultimo, fantastico e crudele. Il Senato dubitò se lo dovesse chiamare Dio o tiranno; e furono conceduti alla memoria di lui gli onori divini, per le preghiere di Antonino Pio255.

      Il genio capriccioso di Adriano influì sulla scelta del suo successore. Dopo aver gettati gli occhi sopra molti soggetti di un merito distinto, da lui stimati ed odiati, adottò Elio Vero, nobile voluttuoso ed allegro, caro per la sua non comune bellezza all'amante di Antinoo256. Ma mentre Adriano si applaudiva della sua scelta, e delle acclamazioni dei soldati, dei quali si era assicurato il consenso con un esorbitante donativo, una morte immatura rapì ai suoi amplessi il nuovo Cesare257. Questi lasciò solamente un figlio ancor bambino, che Adriano raccomandò alla gratitudine degli Antonini. Pio l'adottò, ed all'avvenimento di Marco, fu rivestito di una porzione del poter sovrano. Aveva il minor Vero, fra molti vizi, una virtù, che consisteva nel dovuto rispetto verso il suo più saggio collega, al quale abbandonò volontariamente le cure più penose dell'Impero. Il filosofo Imperatore chiuse gli occhi sulla stolta condotta di lui, ne pianse l'acerba morte, e gettò un velo decente sopra la sua memoria.

      Appena la passione di Adriano, fu o soddisfatta o delusa, egli risolse di meritare la gratitudine della posterità, mettendo il merito più illustre sul trono romano. Il suo occhio penetrante facilmente scoprì un Senatore di circa cinquant'anni, irreprensibile in tutta la condotta della sua vita, ed un giovane di quasi diciassette anni, che in età più matura presentò poscia il bell'aspetto di tutte le virtù, il maggiore di questi fu dichiarato figlio e successore di Adriano, a condizione però ch'egli stesso adotterebbe subito il più giovane. I duo Antonini, (giacchè si parla adesso di loro) governarono il Mondo romano per quarantadue anni con lo stesso spirito invariabile di prudenza e di virtù. Benchè Pio avesse due figli258, preferì il bene di Roma all'interesse della sua famiglia; diede la sua figlia Faustina in moglie al giovane Marco, gli ottenne dal Senato la potestà tribunizia e proconsolare, e disprezzando nobilmente, o piuttosto ignorando la gelosia, lo associò a tutte le fatiche del Governo. Marco, dall'altra parte, riveriva il carattere del suo benefattore, lo amava come padre, l'obbediva come Sovrano259, e dopo la morte di lui resse lo Stato secondo l'esempio e le massime del suo predecessore. Questi due regni sono forse il solo periodo della storia, nel quale la felicità di un gran popolo sia stata il solo oggetto di chi lo governava.

      Tito Antonino Pio era giustamente stato chiamato un secondo Numa. Lo stesso amore della religione, della giustizia e della pace, formava il carattere distintivo di questi due Principi. Ma la situazione dell'ultimo gli aprì un campo più largo all'esercizio di queste virtù. Numa poteva solamente impedire pochi vicini villaggi dal devastarsi scambievolmente le loro campagne. Antonino diffuse l'ordine e la tranquillità sulla maggior parte della Terra. Il suo regno è distinto dal raro vantaggio di fornire pochissimi materiali per la storia, la quale veramente non è quasi altro che il registro dei delitti, delle pazzie e delle sventure degli uomini. Nella vita privata era amabile e buono. La natural semplicità della sua virtù non conosceva la vanità, o l'affettazione. Godeva con moderazione dell'illustre suo grado, e dei piaceri innocenti della società260; e la benevolenza del suo animo si palesava nella dolce serenità del uno volto.

      La virtù di Marco Aurelio Antonino era di un carattere più severo e più faticoso261. Era il frutto di molte dotte conferenze, di una vasta e paziente lettura, e di molte notturne applicazioni. In età di dodici anni abbracciò il rigido sistema degli stoici che gl'insegnò a sottomettere il corpo allo spirito, le passioni alla ragione, a considerar le virtù come l'unico bene, il vizio come l'unico male, e tutte le cose esterne come cose indifferenti262. Le sue Meditazioni, composte nel tumulto di un campo sussistono ancora; egli condescendeva eziandio a dar lezioni di filosofia in un modo più pubblico di quel che forse convenisse alla modestia di un savio, o alla dignità di un Imperatore263. Ma la sua vita era il più nobil commento dei precetti di Zenone. Rigido con sè stesso, compativa gli altrui difetti, ed era giusto e benefico con tutto il genere umano. Si dolse che Avidio Cassio, il quale eccitò una ribellione in Siria, gli avesse, con una morte volontaria, tolto il piacere di farsi d'un nemico un amico, e giustificò la sincerità di questo sentimento col moderare lo zelo del Senato contro gli aderenti del traditore264. Detestava la guerra come il flagello dell'umanità; ma quando la necessità di una giusta difesa lo sforzò a prender l'armi, si espose coraggiosamente sulle gelate rive del Danubio a otto campagne d'inverno, il cui rigore tornò finalmente fatale alla sua debole complessione. La sua memoria fu venerata dalla grata posterità, e più d'un secolo dopo la sua morte molti conservavano l'immagine di Marco Antonino, tra quelle dei loro Numi domestici265.

      Se si avesse da stabilire nella storia del Mondo il periodo, nel quale la condizione degli uomini sia stata più prospera e felice, si dovrebbe subito nominare quello che corse dalla morte di Domiziano all'avvenimento di Commodo. La vasta estensione del romano Impero venne regolata da un assoluto potere sotto la scorta della virtù e della prudenza. Gli eserciti furono contenuti dalla mano forte ma moderata di quattro successivi Imperatori, il carattere e l'autorità dei quali esigevano involontario rispetto. Il sistema dell'amministrazione civile fu gelosamente conservato da Nerva, da Traiano, da Adriano e dagli Antonini, i quali si dilettavano della immagine della libertà, e si riguardavano con compiacenza come i ministri e i custodi delle leggi. Principi tali sarebbero stati degni di ristabilir la Repubblica, se i Romani dei loro tempi fossero stati capaci di godere di una ragionevole libertà.

      Le fatiche di questi Principi furon premiate dalla grandissima ricompensa che inseparabilmente accompagnava i loro successi, dall'onesto orgoglio della virtù, e dal puro e sommo diletto di vedere la felicità universale, della quale essi eran gli autori. Una riflessione, giusta ma trista, amareggiava però il più nobile dei piaceri umani; e doveano spesso ricordarsi quanto fosse instabile una felicità, la quale dipendeva dalla indole di un uomo solo. Forse si avvicinava il fatal momento, nel quale qualche giovane dissoluto o qualche tiranno geloso, distruggerebbe il lor popolo con quell'assoluto potere ch'essi aveano impiegato a farlo felice. Il freno ideale del Senato o delle leggi poteva servire a far risaltar le virtù, ma non a correggere i vizj dell'Imperatore. La forza militare era uno strumento cieco ed irresistibile di oppressione; e la corruzione dei costumi romani sempre avrebbe fornito adulatori facili ad applaudire, o ministri pronti a servire al timore o all'avarizia, ai sensuali piaceri od alla crudeltà dei loro padroni.

      L'esperienza dei Romani aveva già giustificato questi funesti timori. Gli annali degl'Imperatori presentavano una forte e varia pittura della natura umana, che noi invano ricercheremmo tra i misti e dubbj caratteri della storia moderna. Nella condotta di que' Monarchi si possono scoprire tutti i gradi del vizio e della virtù; la perfezione più sublime e la più bassa degenerazione della nostra specie. L'aureo secolo di Traiano e degli Antonini era stato preceduto da un secolo di ferro. È quasi superfluo il numerare gl'indegni successori di Augusto. I loro incomparabili vizj, ed il teatro illustre, sul quale hanno rappresentato, gli hanno salvati dall'obblivione. Il cupo inflessibil Tiberio, il furioso Caligola, lo stupido Claudio, il malvagio e crudele Nerone, il brutale Vitellio266, ed il timido e barbaro Domiziano sono condannati ad una perpetua infamia. Per quarant'anni (se si eccettui solamente il breve e dubbioso respiro267 del regno di Vespasiano) Roma gemè sotto una continua tirannide, la quale esterminò le antiche famiglie della Repubblica, e riuscì fatale a quasi ogni virtù, e ad ogni talento che comparve in quello sfortunato periodo.

      Sotto il regno di questi mostri la schiavitù dei Romani fu accompagnata da due circostanze particolari; la prima derivata dalla loro antica libertà, l'altra dalle loro estese conquiste, onde si rendè la lor condizione più compiutamente misera che quella delle vittime della tirannia in qualunque altro secolo o paese. Queste cagioni produssero la squisita sensibilità


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<p>255</p>

Dione, l. LXX p. 1171 Aurel. Victor.

<p>256</p>

La deificazione, le medaglie, le statue, i templi, le città, gli oracoli, e la costellazione di Antinoo sono ben cogniti, e disonorano agli occhi della posterità la memoria dell'Imperatore Adriano. È da osservarsi per altro, che tra i quindici primi Cesari Claudio fu il solo, i cui amori non abbiano fatto arrossir la natura. Intorno agli onori renduti ad Antinoo, vedi Spanheim nei Commentarj ai Cesari di Giuliano p. 80.

<p>257</p>

Stor. Aug. p. 13. Aurelio Vittore in Epitom.

<p>258</p>

Senza il soccorso delle medaglie e delle iscrizioni noi ignoreremmo quest'azione di Antonino Pio, che fa tant'onore alla sua memoria.

<p>259</p>

In tutti i 23 anni del regno di Antonino, Marco Aurelio non fu che due notti assente dal Palazzo, ed ancora in due volte diverse. Storia Angusta p. 25.

<p>260</p>

Questo Principe amava gli spettacoli, e non era insensibile ai vezzi del bel sesso: Marco Aurelio I 16. Storia Augusta p. 20 e 21. Giuliano nei Cesari.

<p>261</p>

Marco Aurelio è stato accusato d'ipocrisia, e i suoi nemici gli hanno rimproverato di non aver avuto quella semplicità, che contrassegnava Antonino Pio, e Vero pur anco: Storia Augusta 6. 34. Questo ingiusto sospetto ci fa vedere quanto le qualità personali sieno più applaudite delle virtù sociali. Marco Aurelio egli istesso è tacciato d'ipocrisia, ma lo scettico più grande che dar si possa, non dirà mai che Cesare fosse un poltrone, o Cicerone un imbecille. Lo spirito ed il valore seducono assai più dell'umanità e dell'amore per la giustizia.

<p>262</p>

Tacito ha in poche parole esposti i principj della scuola del Portico. «Doctores sapientiae secutus est, qui sola bona quae honesta, mala tantum quae turpia, potentiam nobilitatem, caeteraque extra animum, neque bonis, neque malis adnumerant.» Tacito Stor. IV 5.

<p>263</p>

Avanti la seconda sua spedizione contro i Germani, fece alcune pubbliche lezioni di filosofia al popolo romano. Egli avea già fatto lo stesso nelle città della Grecia e dell'Asia. Stor. Aug. in Cassio c. 3.

<p>264</p>

Dion. l. LXXI p. 1190 Stor. Aug. in Avidio Cassio.

<p>265</p>

Stor. August. in Marco Antonin. c. 18.

<p>266</p>

Vitellio spese per la sua tavola circa dodici milioni di zecchini quasi in sei mesi. È difficile l'esprimere i vizj di questo Principe con dignità od anche con decenza. Tacito lo chiama un porco, ma sostituendo a quella parola grossolana una bellissima immagine «At. Vitellius, umbraculis hortorum abditus, ut ignava animalia, quibus si cibum suggeras, jacent torpentque, praeterita, instantia, futura pari oblivione dimiserat. Atque illum nemore Aricino desidem, et marcentem etc.» Tacit. Stor. III 36. Sveton. in Vitell. c. 13. Dione Cassio l. LXV p. 1062.

<p>267</p>

La morte di Elvidio Prisco e della virtuosa Eponina disonorò il regno di Vespasiano.