Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1 - Edward Gibbon


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casuale scarsezza in una provincia, era immediatamente riparata dall'abbondanza dei suoi più fortunati vicini.

      L'agricoltura è il fondamento delle manifatture; giacchè le produzioni della natura sono i materiali dell'arte. Sotto l'Impero di Roma, la gente ingegnosa ed industre s'impiegava diversamente, ma continuamente in servizio dei ricchi. Questi favoriti della fortuna univano ogni raffinamento di comodo, di eleganza, e di splendore negli abiti, nella tavola, nelle case e nei mobili; e volevano tutto ciò che poteva o lusingar il fasto, o soddisfare il senso. Questi raffinamenti, sotto l'odioso nome di lusso, sono stati severamente condannati dai moralisti d'ogni secolo; e forse sarebbe più conveniente alla virtù, ed alla felicità degli uomini, se ciascuno possedesse i beni necessarj alla vita, e niuno i superflui. Ma nella presente imperfetta condizione della società, il lusso, sebben conseguenza del vizio o della pazzia, sembra esser l'unico mezzo di correggere l'ineguale distribuzione dei beni. Il diligente meccanico e l'abile artista, i quali non ebbero parte alcuna nelle divisioni della terra, ricevono una tassa volontaria dai possessori dei terreni; e questi sono eccitati dal sentimento dell'interesse a migliorare quei beni, col prodotto dei quali possono procurarsi nuovi piaceri. Questa operazione, i cui particolari effetti si provano in ogni società, esercitava un'energia molto più estesa nel Mondo romano. Le province avrebber ben presto perduto la loro opulenza, se le manifatture ed il commercio del lusso non avessero insensibilmente restituite ai sudditi industriosi le somme, che da loro esigevano le armi e l'autorità di Roma. Finchè la circolazione fu confinata nei limiti dell'Impero, essa imprimeva alla macchina politica un nuovo grado di attività, e le sue conseguenze, talvolta benefiche, non potevano mai divenire perniciose.

      Ma non è facil cosa di contenere il lusso dentro i limiti di un Impero. I paesi più remoti del Mondo antico furono saccheggiati per supplire al fasto ed alla delicatezza di Roma. Le foreste della Scizia fornivano alcune preziose pelli. L'ambra si portava per terra dai lidi del Baltico al Danubio, ed i Barbari stupivano del prezzo, che essi ricevevano in cambio di una merce sì inutile206. I luppoli di Babilonia e le altre manifatture dell'Oriente erano ricercatissime. Ma il ramo più considerabile e ricco di straniero commercio si faceva con l'Arabia e con l'India. Ogni anno, verso il solstizio d'estate, una flotta di cento venti vascelli partiva da Mioshormos, porto dell'Egitto sul mar Rosso. Con l'aiuto dei venti periodici traversavan l'Oceano quasi in quaranta giorni. La costa del Malabar, o l'isola del Ceylan207 era il solito termine della loro navigazione, ed i mercanti delle più remote contrade dell'Asia aspettavano il loro arrivo in quegli scali. Il ritorno della flotta egiziana era stabilito nel mese di Dicembre o di Gennaio. Ed appena il suo ricco carico era stato trasportato su i cammelli dal mar Rosso al Nilo, ed era calato per quel fiume fino ad Alessandria, si spargeva senza indugio nella capitale dell'Impero208. Gli oggetti del traffico orientale erano splendidi, ma di poca utilità; la seta209 che si vendeva a peso d'oro, le pietre preziose, tra le quali la perla aveva il primo posto dopo il diamante210; ed una moltitudine di aromati, che si consumavano nel culto religioso, e nelle pompe dei funerali.

      La fatica ed il pericolo del viaggio venivano ricompensati da un profitto quasi incredibile; ma questo profitto si faceva sopra i sudditi Romani, e pochi individui si arricchivano a spese del pubblico. Come i nazionali dell'Arabia e dell'India si contentavano delle produzioni e manifatture del loro paese, così l'argento per parte dei Romani era il principale, se non il solo strumento di commercio. Il Senato giustamente si lagnava, che per femminili ornamenti si mandassero tra le nazioni straniere e nemiche211 le ricchezze dello Stato, che più non ritornavano. La perdita annuale si fa ascendere da uno scrittore esatto e critico a più di un milione e seicento mila zecchini212. Questo era lo stile di uno spirito mal contento, e sempre occupato dal malinconico aspetto di una vicina povertà. E ciò non ostante se si paragoni la proporzione tra l'oro e l'argento, quale era nel tempo di Plinio, e qual fu determinata nel regno di Costantino, si scoprirà in quel periodo un considerabilissimo aumento213. Non vi è la minima ragion di supporre, che l'oro fosse divenuto più raro: è perciò evidente che l'argento era divenuto più comune, e che per grandi che fosser le somme trasportate nell'India e nell'Arabia, erano ben lungi dall'esaurire l'opulenza del Mondo romano; ed il prodotto delle miniere suppliva abbondantemente alle esigenze del commercio.

      Non ostante l'inclinazione degli uomini ad innalzare il passato, e ad avvilire il presente, sì i provinciali che i Romani sentivano veramente, e di buona fede confessavano lo stato prospero e tranquillo dell'Impero. «Essi conoscevano che i veri principj della vita sociale, le leggi, l'agricoltura e le scienze, già inventate dalla saggia Atene, erano allora solamente stabilite dalla potenza romana, la quale con felice influenza aveva uniti i barbari più feroci sotto un governo eguale ed un linguaggio comune. Affermavano che con i progressi delle arti la specie umana era visibilmente moltiplicata. Celebravano l'accresciuto splendore delle città, il ridente aspetto della campagna, tutta coltivata ed adorna come un immenso giardino, e le feste di una lunga pace, che si godeva da tante nazioni, dimentiche delle loro antiche animosità, e libere dal timore d'ogni futuro pericolo214.» Qualunque dubbio possa nascere dall'accento rettorico e declamatorio, che sembra dominare in questo passo, esso nell'essenziale perfettamente combina con la verità della storia.

      Era quasi impossibile che l'occhio de' contemporanei scoprisse nella pubblica felicità le nascoste cagioni della decadenza e della corruzione. Quella lunga pace, ed il governo uniforme dei Romani, introducevano un veleno lento e segreto nelle parti vitali dell'Impero. Le menti degli uomini si ridussero a poco a poco al medesimo livello, si estinse il fuoco del genio, e svanì fin lo spirito militare. Gli Europei erano coraggiosi e robusti. La Spagna, la Gallia, la Britannia e l'Illirico fornivano alle legioni soldati eccellenti, e formavano la forza reale della Monarchia. Il loro valor personale ancor sussisteva, ma essi non più avevano quel coraggio pubblico, che si nutrisce con l'amor dell'indipendenza, col sentimento dell'onor nazionale, coll'aspetto del pericolo, e con l'assuefazione al comando. Essi ricevevano le leggi ed i governatori dalla volontà del Sovrano, ed affidavano la loro difesa ad un esercito mercenario. La posterità dei loro più valorosi generali si contentava del grado di cittadini e di sudditi. Gli spiriti più ambiziosi correvano alla Corte o alle insegne degl'Imperatori; e le province abbandonate, prive della forza o dell'unione politica, caddero insensibilmente nella languida indifferenza della vita privata.

      L'amor delle lettere, quasi inseparabile dalla pace e dal raffinamento, era di moda tra i sudditi di Adriano e degli Antonini, i quali erano essi stessi e dotti e curiosi. Questo amore si sparse per tutta l'estensione del loro Impero; le più settentrionali tribù della Britannia avevano acquistato l'amore della rettorica: sulle rive del Reno e del Danubio si copiavano e si leggevano Omero e Virgilio, ed ogni più debol lampo di merito letterario veniva magnificamente ricompensato215. La medicina e l'astronomia si coltivavano con qualche reputazione; ma eccettuato l'inimitabil Luciano, quel secolo d'indolenza non produsse un solo scrittore d'ingegno originale che meritasse l'attenzione della posterità. Regnava ancor nelle scuole l'autorità di Platone, d'Aristotile, di Zenone e di Epicuro; ed i loro sistemi, trasmessi con cieca deferenza da una generazione di scolari all'altra, impediva ogni sforzo generoso, che avesse potuto correggere gli errori dell'umano intendimento, o estenderne i confini. Le bellezze dei poeti e degli oratori, invece di accendere nei lettori un egual fuoco, inspiravano solamente fredde e servili imitazioni; o se alcuno si avventura ad allontanarsi da quei modelli, si allontanava nel tempo stesso dal buon senso o dalla ragione. Al rinascere delle lettere il giovanil vigore dell'immaginativa, la nazionale emulazione, una nuova religione, nuove lingue, ed un nuovo mondo riscossero dal lungo letargo il genio dell'Europa. Ma i provinciali di Roma, schiavi di una artificiosa ed uniforme educazione straniera, erano molto deboli per competere con quei valorosi antichi, i quali con esprimere i loro genuini sentimenti nella lingua nativa, avevano già occupati tutti i posti di onore. Il nome di poeta era quasi andato in obblio; e dai Sofisti si usurpava quel di oratore. Un nembo di critici, di compilatori e di commentatori oscurava le scienze; e la decadenza del genio fu presto seguita


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<p>206</p>

Tacito German. c. 45. Plinio Stor. Nat. XXXVII 11. Osserva egli graziosamente che la moda stessa non avea ancor potuto insegnare l'utilità dell'ambra. Nerone mandò un cavaliere romano ne' luoghi ove la raccoglievano (che sono le coste della Prussia moderna) a comprarne una gran quantità.

<p>207</p>

Chiamata Taprobane dai Romani, e Serendib dagli Arabi. Quest'Isola fu scoperta sotto il regno di Claudio, e divenne insensibilmente la sede principale del commercio dell'Oriente.

<p>208</p>

Plinio Stor. Nat. l. VII. Strab. l, XVII.

<p>209</p>

Stor. Augusta p. 224. Una veste di seta era considerata come un ornamento femminile ed indegna di un uomo.

<p>210</p>

Le due gran pesche di perle erano le medesime dei nostri tempi, Ormuz, e il Capo Comorino. Per quanto noi possiamo paragonare la Geografia antica colla moderna, Roma ricavava i suoi diamanti dalla miniera di Jumelpur nel Regno di Bengala; se ne trova una descrizione nel tom. II. Viaggi di Tavernier pag. 281.

<p>211</p>

Tacito Annali III 5 in un discorso di Tiberio.

<p>212</p>

Plin. Stor. Nat. XII 18. In un altro luogo calcola la metà di questa somma; quingenties H. S. per l'India, senza comprender l'Arabia.

<p>213</p>

La proporzione che era da uno a dieci, e dodici e mezzo salì a quattordici e due quinti per una legge di Costantino. Ved. le tavole di Arbuthnot sopra le monete antiche c. V.

<p>214</p>

Oltre diversi altri passi ved. Plinio Stor. Nat. III 5 Aristide De urbe Roma, e Tertulliano De anima c. 30.

<p>215</p>

Erode Attico dette al Sofista Polemone quasi sedicimila zecchini per tre declamazioni. V. Filostr. l. I p. 558. Gli Antonini fondarono una scuola in Atene, nella quale si mantenevano a pubbliche spese professori di grammatica, di rettorica, di politica, e delle quattro Sette principali della filosofia per istruzione della gioventù. Il salario di un filosofo era diecimila dramme l'anno Furono fatti stabilimenti simili nelle altre città dell'Impero. Ved. Luciano nell'Eunuc. tom. II p. 353 ediz. Reitz Filostrat, l. II p, 566. Storia Augusta p. 2. Dione Cassio l. LXXI p. 1195.

Lo stesso Giovenale, in una satira piena di mal talento, la quale ad ogni linea tradisce la sua invidia e il suo scontento, è però obbligato a soggiugnere

– O Juvenes circumspicit, at agitat vos,

Materiamque sibi Ducis indulgentia quaerit.

Sat. VII 20.