Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1 - Edward Gibbon


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un più particolare favore. I Magistrati solamente, allo spirar dei loro uffizj, assumevan la qualità di cittadini romani; ma siccome questi uffizj erano annuali, in pochi anni circolavano per le principali famiglie139. Quelli tra i provinciali a' quali era permesso di portar le armi nelle legioni140; quelli che esercitavano qualche impiego civile; tutti quelli, in una parola, che servivano il pubblico, o mostravano qualche personale talento, erano premiati con una ricompensa, il cui valsente andò continuamente diminuendo con l'accrescersi della liberalità degl'Imperatori. Per altro, anche nel secolo degli Antonini, quando la cittadinanza era stata largita alla maggior parte dei sudditi, era questa sempre accompagnata da vantaggi assai solidi. La massa del popolo acquistava con tal titolo il benefizio delle leggi romane, particolarmente negli interessanti articoli di matrimonio, di testamenti e di eredità; e la strada della fortuna rimaneva aperta a coloro, le cui pretensioni erano secondate dal favore o dal merito. I nipoti dei Galli, che aveano assediato Giulio Cesare in Alesia, comandavano le legioni, governavano le province, ed erano ammessi nel Senato di Roma141. La loro ambizione, in cambio di disturbare la tranquillità dello Stato, era intimamente connessa con la sua salvezza e grandezza.

      I Romani eran così persuasi dell'influenza della lingua su i costumi nazionali, che la più seria lor cura fu di estendere col progresso delle loro armi l'uso della lingua latina142. Gli antichi dialetti dell'Italia, il Sabino, l'Etrusco ed il Veneto caddero in obblio; ma nelle province l'Oriente fu men docile dell'Occidente alla voce dei suoi vittoriosi maestri. Questa differenza distingueva le due porzioni dell'Impero con una diversità di colori, la quale sebbene fu in qualche parte nascosta, durante il chiaro splendore di prosperità, divenne più visibile a misura che le ombre della notte scesero sul Mondo romano. Le contrade occidentali furon tratte a civiltà dalle stesse mani che lo sottomisero. Appena i Barbari furon ricondotti alla obbedienza, le loro menti si aprirono a tutte le nuove impressioni delle scienze e della cultura. La lingua di Virgilio e di Cicerone, sebbene con qualche inevitabil mescuglio di corruzione, fu così universalmente adottata nell'Affrica, nella Spagna, nella Gallia, nella Britannia143 e nella Pannonia, che soltanto nelle montagne, o tra i contadini si conservarono le deboli tracce della lingua punica o della celtica144. L'educazione e lo studio inspirarono insensibilmente ai nativi di quei paesi i sentimenti dei Romani, e l'Italia diede le mode, come le leggi ai suoi provinciali latini. Essi ricercarono con maggiore ardore, ed ottennero con maggior facilità il titolo e gli onori di cittadino romano: sostennero la dignità della nazione nelle lettere145 e nelle armi: ed al fine produssero nella persona di Traiano un Imperatore che gli Scipioni non avrebbero ricusato per loro concittadino. La situazione dei Greci era ben diversa da quella dei Barbari. I primi erano stati già da gran tempo inciviliti e corrotti. Essi aveano troppo buon gusto per abbandonare la loro lingua, e troppa vanità per adottare alcuna istituzione straniera. Conservando sempre i pregiudizj dei loro antenati, dopo averne perdute le virtù, affettavano di disprezzare le rozze maniere dei romani conquistatori, mentre erano astretti a rispettare la loro superior forza e prudenza146. Nè l'influenza del linguaggio e dei sentimenti dei Greci era ristretta negli angusti confini di quella, una volta, famosa regione. Il loro Impero, col progresso delle colonie e delle conquiste, si era diffuso dall'Adriatico all'Eufrate ed al Nilo. L'Asia era coperta di città greche, ed il lungo dominio dei Re macedoni aveva sordamente introdotta una rivoluzione nella Siria e nell'Egitto. Nelle loro magnifiche Corti quei Principi univano l'eleganza ateniese al lusso orientale, e l'esempio della Corte era, nella proporzionata distanza, imitato dai più distinti ordini dei loro sudditi. Tale era la general divisione dell'Impero romano nelle lingue latina e greca. A queste possiamo aggiungere una terza distinzione pe' nazionali della Siria, e specialmente dell'Egitto. L'uso dei loro antichi dialetti, segregandoli dal commercio degli uomini, era d'impedimento alla cultura di que' Barbari147. La pigra effeminatezza dei primi gli esponeva alla derisione; e l'ostinata ferocia dei secondi eccitava l'avversione dei loro conquistatori148. Queste nazioni si eran sottomesse alla potenza romana, ma raramente desiderarono, o ne meritarono la cittadinanza; e fu osservato che passarono più di dugento trent'anni dopo l'estinzione dei Tolomei, prima che un Egiziano fosse ammesso nel Senato romano149.

      È osservazione giusta, sebben comune, che la vittoriosa Roma fu ella stessa soggiogata dalle arti della Grecia. Quegli immortali Scrittori, che fanno ancora l'ammirazione della moderna Europa, presto divennero l'oggetto favorito dello studio e dell'imitazione nell'Italia e nelle province occidentali. Ma non portavano danno le geniali occupazioni dei Romani alle radicate massime della loro politica. Mentre riconoscevano le bellezze della lingua greca, sostenevano la dignità della latina; e l'uso esclusivo della seconda fu conservato inflessibilmente nell'amministrazione sì del governo civile, che del militare150. I due linguaggi esercitavano nel tempo stesso la loro separata giurisdizione per tutto l'Impero; il primo come naturale idioma delle scienze, il secondo come il dialetto legale degli atti pubblici. Quelli che univano le lettere agli affari, erano egualmente versati nell'uno e nell'altro; ed era quasi impossibile in qualunque provincia di trovare un suddito romano di una educazion liberale, che non sapesse nel tempo stesso la lingua greca e la latina.

      Con tali regolamenti le nazioni dell'Impero insensibilmente si confusero nel nome e nel popolo romano. Ma vi restava ancora nel centro di ogni provincia e di ogni famiglia una infelice classe di uomini, che sopportavano il peso senza godere dei benefizj della società. Negli Stati liberi delle antiche Repubbliche, gli schiavi domestici erano esposti al capriccioso rigore del dispotismo. Al perfetto stabilimento dello Impero romano avean preceduto i secoli della violenza e della rapina. Gli schiavi erano per la maggior parte Barbari prigionieri, presi a migliaia per sorte di guerra, comprati a vil prezzo151, avvezzi ad una vita indipendente, ed impazienti di rompere e vendicare i lor ceppi.

      I più severi provvedimenti, ed il più crudel trattamento152 contro quegli interni nemici pareano quasi giustificati dalla gran legge della propria conservazione, giacchè essi avean con disperate ribellioni condotta più d'una volta la Repubblica all'orlo del precipizio153. Ma quando le principali nazioni dell'Europa, dell'Asia e dell'Affrica furono unite sotto le leggi di un solo Sovrano, la sorgente dei rinforzi stranieri divenne meno abbondante, ed i Romani furono ridotti al più mite ma più tedioso metodo della propagazione. Incoraggiarono i matrimonj degli schiavi nelle lor numerose famiglie, e particolarmente nelle loro campagne. I sentimenti della natura, gli abiti della educazione, ed una specie di proprietà, benchè dipendente, contribuirono ad addolcire la durezza della servitù154. L'esistenza di uno schiavo divenne un oggetto di valuta maggiore; e sebbene la felicità di lui dipendesse sempre dal carattere o dalle circostanze del padrone, pure l'umanità del secondo, invece di essere scemata dal timore, era incoraggiata dal sentimento del proprio interesse. La politica o la virtù degl'Imperatori accelerò il perfezionamento dei costumi; ed Adriano e gli Antonini estesero con i loro editti la protezion delle leggi fino alla più abietta parte degli uomini. Si tolse ai privati il diritto di vita e di morte sopra gli schiavi, del quale avevano per lungo tempo e spesso abusato, e fu riservato ai soli magistrati. Furon distrutte le sotterranee prigioni; e lo schiavo ingiuriato, se giustamente si lamentava di un intollerabil trattamento, otteneva o la libertà, od un padrone meno crudele155.

      La speranza, che è il miglior sollievo della nostra imperfetta condizione, non era negata allo schiavo romano; e se trovava alcuna opportunità di rendersi utile e gradito, poteva molto ragionevolmente sperare che la diligenza e fedeltà di pochi anni sarebbe ricompensata con l'inestimabil dono della libertà. La benevolenza del padrone era così spesso animata dai più bassi motivi di vanità e di avarizia, che le leggi crederono più necessario di raffrenare, che d'incoraggiare questa profusa ed


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<p>139</p>

Spanheim Orb. Rom. c. 8 p. 62.

<p>140</p>

Aristide, in Romae encomio, tom. I. p. 218 edit. Jebb.

<p>141</p>

Tacito Annal. XI 2 24 Stor. IV 74.

<p>142</p>

Plinio Stor. Nat. III 5, S. Agostino De Civitate Dei XIX 7, Giusto Lipsio De pronunciatione linguae latinae c. 3.

<p>143</p>

Apuleio e S. Agostino saranno garanti per l'Affrica; Strabone per la Spagna e la Gallia; Tacito nella vita d'Agricola per la Britannia, e Velleio Patercolo per la Pannonia. A tutte queste testimonianze noi possiamo aggiugnere il linguaggio delle Iscrizioni.

<p>144</p>

La lingua celtica si conservò nei monti del paese di Galles, di Cornovaglia, e dell'Armorica. Apuleio rimprovera l'uso della lingua punica a un giovane affricano, che viveva tra gli ultimi del popolo, mentre avea quasi dimenticata la greca, e che non sapeva o non voleva parlar latino. Apolog. p. 596. S. Agostino non parlò che rarissimamente in lingua punica ne' suoi Concilj.

<p>145</p>

La sola Spagna fu madre di Columella, dei due Seneca, di Lucano, di Marziale e di Quintiliano.

<p>146</p>

Da Dionigi fino a Libanio, nessun critico greco, che io sappia, fa menzione di Virgilio, o di Orazio. Sembra che nessuno conoscesse i buoni Scrittori romani.

<p>147</p>

Il lettore curioso può vedere nella Biblioteca Ecclesiastica di Dupin tom. XIX p. I cap. 8 qual cura si aveva per conservare le lingue siriaca ed egiziana.

<p>148</p>

Ved. Gioven. Sat. III e XV, Ammiano Marcellino XXII 16.

<p>149</p>

Dione Cassio l. LXXVII p. 1275. Sotto il regno di Settimio Severo fu per la prima volta un Egiziano ammesso nel Senato.

<p>150</p>

Valerio Massimo, l. II c. 2 n. 1. L'Imperatore Claudio degradò un ragguardevol Greco, perchè non sapeva la lingua latina. Questi avea forse qualche pubblico impiego. Svet. Vita di Claudio c. 16.

<p>151</p>

Nel campo di Lucullo un bove fu venduto una dramma, ed uno schiavo quattro dramme. Plutarco; Vita di Lucullo, p. 580.

<p>152</p>

Diodoro di Sicilia, in Eclog. Hist. l. XXXIV e XXXVI Floro III 19 20.

<p>153</p>

Ved. un esempio notabile di severità in Cicerone, in Verrem. V. 3.

<p>154</p>

Grutero, e gli altri compilatori riportano un gran numero d'iscrizioni indirizzate dagli schiavi alle lor mogli, ai figli, ai compagni, ai padroni ec. e che, secondo tutte le apparenze, sono del secolo degl'Imperatori.

<p>155</p>

Ved. la Storia Augusta, ed una Dissert. di M. de Burigny intorno agli schiavi dei Romani nel XXXV volume dell'Accademia delle Belle Lettere.