Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1 - Edward Gibbon


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di sudditi e di stranieri di ogni parte del Mondo118 che tutti v'introducevano e professavano le superstizioni favorite de' loro paesi119. Ogni città nell'Impero era autorizzata a mantenere la purità delle sue antiche cerimonie; ed il Senato romano, usando del comun privilegio, s'interponeva talvolta per frenare questa inondazione di riti stranieri. La superstizione egiziana, la più disprezzabile ed abbietta di tutte, frequentemente fu proibita: i tempj di Serapide e d'Iside furono demoliti, ed i loro adoratori banditi da Roma e dall'Italia120. Ma lo zelo del fanatismo prevalse ai freddi e deboli sforzi della politica. Gli esiliati tornarono, si moltiplicarono i proseliti, i tempj furon riedificati con maggior lustro, ed Iside e Serapide ebbero alfine un posto tra le romane divinità121. Nè questa indulgenza era un allontanarsi dalle vecchie massime di governo. Nei più bei secoli della Repubblica, Cibele ed Esculapio erano stati invitati in Roma con solenni ambasciate122, ed era costume di tentare i protettori delle città assediate con la promessa di onori più segnalati di quelli, che ricevevano nel paese nativo123. Roma divenne a poco a poco il tempio comune dei suoi sudditi; e la cittadinanza fu conceduta a tutti gli Dei del genere umano124.

      II. La meschina politica di conservare senza alcun mescuglio straniero il puro sangue degli antichi cittadini, avea rintuzzata la fortuna, ed affrettata la rovina di Atene e di Sparta. Il genio sprezzante di Roma sacrificò quella debole vanità ad una più soda ambizione, e credè più prudente ed onorevole partito adottare e far suoi la virtù ed il merito, ovunque li ritrovasse, sia tra gli schiavi o gli stranieri, sia tra i nemici od i Barbari125. Nella più florida età della Repubblica ateniese, il numero dei cittadini gradatamente decrebbe quasi da trenta126 a ventunmila127. Se al contrario si esamina l'accrescimento della Repubblica romana, si scopre che, non ostanti le continue perdite per le guerre e le colonie, i cittadini che nel primo censo di Servio Tullio non ascendevano a più di ottantatremila, erano moltiplicati, innanzi al principio della guerra Sociale, al numero di quattrocento sessantatremila uomini atti a portar le armi in servizio della patria128. Quando gli alleati di Roma pretesero una egual parte agli onori ed ai privilegi, il Senato, invero, preferì la sorte delle armi ad una concessione ignominiosa. I Sanniti ed i Lucani pagarono severamente la pena della loro temerità; ma pel resto degli Stati italiani, come successivamente rientrarono nel dovere, vennero ricevuti in seno della Repubblica129, e presto contribuirono alla rovina della pubblica libertà. Sotto un governo democratico, i cittadini esercitano il potere della sovranità; e questo potere prima degenera in abuso, indi si perde, se venga affidato ad una moltitudine disadatta pel numero al maneggio delle pubbliche cose. Ma poscia che le popolari adunanze furon soppresse dalla politica degl'Imperatori, i conquistatori più non vennero distinti dalle nazioni vinte, se non in quanto occupavano il primo ed il più onorevol ordine di sudditi; ed il loro accrescimento, sebben rapido, non fu più esposto agli stessi pericoli. I più saggi Principi però, i quali adottarono le massime di Augusto, conservarono con la più scrupolosa cura la dignità del nome romano, e largirono la cittadinanza con una prudente liberalità130.

      Finchè i privilegi di cittadino romano non furono progressivamente estesi a tutti gli abitanti dell'Impero, si conservò una distinzione importante tra l'Italia e le province. La prima si riguardava come il centro della pubblica unità, e la salda base della costituzione. L'Italia pretendeva di essere la patria o almeno la residenza degl'Imperatori e del Senato131. Gli Stati degl'Italiani erano esenti da tasse, e le loro persone dalla arbitraria giurisdizione dei governatori. Alle loro comunità municipali, formate sul perfetto modello della capitale, si affidava sotto l'occhio immediato del supremo potere l'esecuzion delle leggi. Dalla radice delle alpi all'estremità della Calabria tutti i nativi d'Italia nascevano cittadini romani. Le loro divisioni di partito erano andate in obblio, ed essi insensibilmente eran venuti a formare una gran nazione unita per la lingua, pe' costumi, e pe' regolamenti civili, e proporzionata al peso di un Impero possente. La Repubblica si gloriava della sua generosa politica, ed era frequentemente ricompensata dal merito e dai servizj dei suoi figli adottivi. Se essa avesse sempre ristretta la distinzione di cittadini romani nelle antiche famiglie dentro le mura della città, quel nome immortale sarebbe andato privo d'alcuno dei suoi nobili ornamenti. Virgilio era nativo di Mantova: Orazio era disposto a dubitare se chiamar si dovesse Pugliese o Lucanio: in Padova si trovò uno Storico degno di raccontare la serie maestosa delle vittorie romane. La famiglia dei Catoni, tanto amante della patria, venne da Tusculo; e la piccola città di Arpino si vantò del doppio onore di aver prodotto Mario e Cicerone, il primo dei quali meritò, dopo Romolo e Camillo, di esser chiamato il terzo fondatore di Roma; ed il secondo, dopo aver salvata la sua patria dalla congiura di Catilina, la rendette capace di contendere con Atene la palma dell'eloquenza132.

      Le province dell'Impero (come esse sono state descritte nel precedente capitolo) erano prive di ogni pubblica forza, o libertà costituzionale. Nell'Etruria, nella Grecia133 e nella Gallia134, la prima cura del Senato fu di sciogliere quelle pericolose confederazioni, le quali insegnavano agli uomini, che come le armi romane erano state vittoriose per le altrui divisioni, così l'unione sola poteva ad esse far resistenza. Quei Principi, ai quali l'ostentazione di gratitudine o di generosità permetteva per qualche tempo di reggere uno scettro precario, venivan balzati dai loro troni, appena avean soddisfatto all'incarico loro ingiunto di avvezzare al giogo le vinte nazioni. Gli Stati liberi e le città, le quali avevano abbracciata la causa di Roma, erano ricompensate con un'alleanza di nome, ed insensibilmente cadevano in una real servitù. La pubblica autorità era per ogni dove esercitata dai ministri del Senato e degl'Imperatori, e quest'autorità era assoluta e senza freno. Ma le stesse salutevoli massime di governo, che avevano assicurata la pace e l'obbedienza dell'Italia, erano estese fino alle più remote conquiste. Una nazione di Romani si formò a poco a poco nelle province, col doppio espediente d'introdurre le colonie, e di ammettere i più fedeli e meritevoli tra i provinciali alla cittadinanza romana.

      «Dovunque il Romano conquista, ivi abita» è una osservazione molto giusta di Seneca135, confermata dalla storia e dalla esperienza. I nativi d'Italia, allettati dal piacere o dall'interesse, si affrettavano a godere dei vantaggi della vittoria; e si può osservare, che circa quarant'anni dopo la riduzione dell'Asia, ottantamila romani furono in un giorno trucidati pei crudeli ordini di Mitridate136. Questi esuli volontarj si occupavano per la maggior parte nel commercio, nella agricoltura e nell'appalto delle pubbliche entrate. Ma di poi che gl'Imperatori fecero permanenti le legioni, popolate furono le province da una razza di soldati; ed i veterani, comunque ricevessero la ricompensa del lor servizio o in moneta o in terreni, generalmente si stabilivano con le loro famiglie nel paese, in cui avevano onorevolmente consumata la lor gioventù. Per tutto l'Impero, ma più specialmente nelle parti occidentali, i distretti più fertili, e le situazioni più convenienti erano riservate allo stabilimento delle colonie; alcune delle quali erano di un ordine civile, ed altre di un ordine militare. Nei loro costumi e nell'interna politica le colonie formavano una perfetta rappresentanza della loro gran madre, e siccome presto divenivan care ai nazionali pei legami dell'amicizia e della affinità, esse diffondevano effettivamente una riverenza pel nome romano, ed un desiderio raramente inefficace, di parteciparne a tempo dovuto gli onori ed i vantaggi137. Le città municipali insensibilmente uguagliarono il grado e lo splendore delle colonie, e nel regno di Adriano si disputò se preferire si dovesse la condizione di quelle società che erano uscite dal grembo di Roma138, o di quelle che vi erano state ricevute. Il diritto del Lazio, come veniva chiamato, conferiva


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<p>118</p>

Seneca De consolat. ad Helviam, pag. 74 edizione di Giusto Lipsio.

<p>119</p>

Dionigi d'Alicarnasso, Antich. Rom. l. II.

<p>120</p>

Nell'anno di Roma 701 il tempio d'Iside, e di Serapide fu demolito per ordine del Senato. (Dione l. XL p. 252), e dalle mani stesse del Console, Val. Mass. I. 3. Dopo la morte di Cesare fu riedificato a spese del pubblico, Dione, l. XLVII. pag. 501. Augusto nella sua dimora in Egitto rispettò la maestà di Serapide, Dione l. LI. p. 647, ma proibì il culto dei Numi egiziani nel Pomerio di Roma, e un miglio all'intorno, Dione l. LIII p. 679 e l. LIV pag. 735. Queste Divinità rimasero per altro in moda sotto il suo regno. Ovid. Do art. am. l. I, e sotto il suo successore, finchè la giustizia di Tiberio fu tratta ad usare qualche severità (ved. Tacito, Annal. II 85; Giuseppe Antichità l. XVIII c. 3.)

<p>121</p>

Tertulliano Apolog. c. 6 p. 74 ediz. Averc. Credo che questo stabilimento possa attribuirsi alla pietà della famiglia Flavia.

<p>122</p>

Ved. Tito Livio l. XI e XXIX.

<p>123</p>

Macrob. Saturn. l. III c. 9. Questo autore ci dà una formola di evocazione.

<p>124</p>

Minuzio Felice in Octavio p. 54. Arnobio l. VI p. 115.

<p>125</p>

Tacito annal. XI 24. Il Mondo Romano del dotto Spanheim è una storia completa della progressiva ammissione del Lazio, dell'Italia e delle province alla cittadinanza romana.

<p>126</p>

Erodoto V 97. Questo numero sembra considerabile e par credibile che l'Autore se ne sia rapportato al rumor popolare.

<p>127</p>

Ateneo Deipnosophist. l. VI p. 172 ediz. di Casaubono; Meursio De fortuna Attica c. 4.

<p>128</p>

Ved. in Beaufort Rep. Rom. l. IV c. 4 il numero esatto dei cittadini che ogni censo comprendeva.

<p>129</p>

Appiano De bello civili l. I. Vallejo Patercolo, l. II c. 15 16 e 17.

<p>130</p>

Mecenate lo consigliò di dare con un editto il titolo di cittadino a tutti i suoi sudditi; ma vien giustamente sospettato che Dione Cassio sia l'autore d'un consiglio così bene adattato alla pratica del suo secolo, e così poco alla politica di Augusto.

<p>131</p>

I Senatori erano obbligati di avere il terzo dei loro beni in Italia. Ved. Plinio l. VI epist. 19. Marco Aurelio permise loro di non avervi che il quarto. Dopo il regno di Traiano, l'Italia cominciò a non essere più distinta dalle altre province.

<p>132</p>

La prima parte della Verona Illustrata del marchese Maffei, dà la più chiara ed estesa descrizione dello stato della Italia al tempo dei Cesari.

<p>133</p>

Ved. Pausania l. II. Quando queste assemblee non furono più pericolose, i Romani consentirono che se ne stabilissero i nomi.

<p>134</p>

Cesare ne fa spesso menzione. L'Ab. Dubos non ha potuto provare che i Galli abbian continuato sotto gl'Imperatori a tenere queste assemblee. Stor. dello stabilimento della Monarch. Francese, l. I, c. 4.

<p>135</p>

Seneca De Consol. ad Helviam, c. 6.

<p>136</p>

Mennone presso Fozio c. 33. Valerio Mass. IX 2, Plutarco e Dione Cassio fanno ascender la strage a 150000 cittadini; ma credo che un numero minore sia più che bastante.

<p>137</p>

Venticinque colonie furono stabilite nella Spagna. Ved. Plinio Stor. Nat. II 3, 4; IV 35, e nove nella Britannia, tra le quali Londra, Colchester, Lincoln, Chester, Glocester, e Bath sono ancora città considerabili. Ved. Riccardo di Cirencester p. 364 e la Stor. di Manchester di Whitaker l. I c. 3.

<p>138</p>

Aulo Gellio Noctes Atticae, XVI. 13. L'imperatore Adriano era sorpreso che le città di Utica, di Cadice e d'Italica, che godevano de' privilegi annessi alle città municipali, sollecitassero il titolo di Colonie: fu presto però seguito il loro esempio, e l'Impero si trovò ripieno di colonie onorarie. Ved. Spanheim De usu numismat. dissert. XIII.