Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1 - Edward Gibbon


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uno strumento facile ed utile per chi aspirava al dispotismo. Sulla dignità del Senato, Augusto ed i suoi successori fondarono il lor nuovo impero, ed affettarono, in ogni occasione, di adottare il linguaggio e le massime dei patrizj. Nell'esercizio della loro potenza essi consultavan frequentemente il supremo consiglio della nazione, ed in apparenza si conformavano alle sue decisioni negli affari più importanti di guerra e di pace. Roma, l'Italia, e le province interne erano sottoposte all'immediata giurisdizione del Senato. Quanto agli affari civili era esso la suprema corte di appello; e quanto alle materie criminali, era un tribunale costituito per giudicare tutti i delitti commessi da' pubblici ministri, o da quelli che offendevano la pace e la maestà del popolo romano. L'amministrazione della giustizia divenne la più frequente e seria occupazione del Senato; l'antico genio dell'eloquenza trovò l'ultimo asilo nel trattare dinanzi a lui le cause importanti. Il Senato possedeva molte considerabili prerogative come Consiglio di Stato, e come tribunal di giustizia; ma in quanto alla qualità legislativa, per cui veniva considerato come rappresentante del popolo, si riconoscevano in quel corpo i diritti della Sovranità. Le leggi ricevevano la sanzione da' suoi decreti, e dalla sua autorità derivava ogni poter subalterno. Si adunava regolarmente tre volte il mese nei giorni stabiliti delle calende, delle none, e degl'idi. Vi si discutevan gli affari con una decente libertà, e gl'Imperatori medesimi, superbi del nome di Senatori, sedevano, davano il voto, e si confondevano con i loro eguali.

      Ripigliamo in poche parole il sistema del Governo imperiale, come fu istituito da Augusto, e conservato da quei Principi, i quali intesero il loro proprio interesse e quello del popolo. Esso si può definire, un'assoluta Monarchia velata con l'apparenza di una Repubblica. I padroni dell'orbe romano avvolgevano di folta nube il lor trono e la loro irresistibile forza, professandosi umilmente ministri dipendenti del Senato, i supremi decreti del quale essi dettavano ed obbedivano235.

      La Corte era formata sul modello della pubblica amministrazione. Gl'Imperatori (eccettuati quei tiranni, la cui capricciosa follia violava tutte le leggi della natura e dell'onore) disprezzavano ogni pompa e formalità, che potesse offendere i loro concittadini, senza accrescere la loro potenza reale. In tutti gli officj della vita affettavano di confondersi con i loro sudditi, e mantenevan con essi un'egual corrispondenza di visite e di trattamenti. Il loro vestire, la loro tavola, il loro palazzo non eran diversi da quelli di un Senatore opulento; ed il treno loro, sebbene splendido e numeroso, era interamente composto dei loro schiavi domestici, e liberti236. Augusto o Traiano si sarebbero vergognati d'impiegar il più vile dei Romani in que' bassi uffizj, che nella famiglia e nella camera di un Monarca limitato dalle leggi, sono adesso ansiosamente cercati dai più superbi signori della Gran Brettagna.

      L'apoteosi è il solo caso237 in cui gli Imperatori si dipartissero dalla solita loro prudenza o modestia. I Greci dell'Asia inventarono i primi per li successori di Alessandro questa servile ed empia adulazione, che presto dai Re fu trasferita ai governatori dell'Asia; ed i magistrati romani furono spesso adorati come divinità provinciali con la pompa degli altari e dei tempj, delle feste, dei sagrifizj238. Era naturale che gl'Imperatori non ricusassero quel che avevano accettato i Proconsoli; e gli onori divini, che le province rendettero agli uni e agli altri, mostravano piuttosto il dispotismo che la servitù di Roma. Ma ben tosto i vincitori imitarono le vinte nazioni nell'arte di adulare; ed il genio imperioso del primo dei Cesari consentì troppo facilmente ad accettare in vita un posto tra le deità tutelari di Roma. Il carattere più moderato del suo successore si guardò da questa pericolosa ambizione, non mai più di poi ravvivata fuor che dalla follia di Caligola e di Domiziano. Augusto permise, è vero, ad alcune città provinciali di erigere i tempj in suo onore, a condizione però che insieme col Sovrano fosse Roma onorata dal loro culto. Egli tollerava una superstizione particolare, di cui egli poteva esser l'oggetto239; ma si contentò di esser venerato dal Senato e dal popolo nel suo umano carattere, e saggiamente lasciò al suo successore la cura della sua pubblica apoteosi. Quindi s'introdusse il regolar costume di porre per solenne decreto del Senato nel numero degli Dei ogni Imperatore estinto, il quale nè in vita nè in morte si fosse mostrato tiranno; e le cerimonie dell'apoteosi si mescevano colla pompa del tuo funerale. Questa legal profanazione, in apparenza stolta, e così contraria alle nostre massime rigorose, fu ricevuta quasi senza alcuna mormorazione240, perchè conveniente alla natura del politeismo, ed accettata però come istituzione di politica e non di religione. Sarebbe un degradar le virtù degli Antonini, paragonandole con i vizj di Ercole o di Giove. Lo stesso carattere di Cesare o di Augusto era di gran lunga superiore a quelli delle deità popolari. Ma questi Principi ebbero la disgrazia di vivere in un secolo illuminato, e le loro azioni eran troppo fedelmente raccontate, per poterle adombrare col velo di quelle favole e di quei misteri, che soli possono eccitare la divozione del volgo. Appena la divinità loro fu dalla legge stabilita, che cadde in obblio senza contribuire o alla loro reputazione o alla dignità dei lor successori.

      Nell'analisi del Governo imperiale, noi abbiamo spesso chiamato l'avveduto fondatore col ben noto nome di Augusto, che non gli fu per altro conferito, se non quando l'edifizio era quasi giunto al suo compimento. Da una bassa famiglia, di cui era nato nella piccola città d'Aricia, prendeva egli l'oscuro nome di Ottaviano, nome macchiato col sangue delle proscrizioni; ed egli stesso desiderava di poter cancellare ogni memoria delle sue azioni passate. Come figlio adottivo del Dittatore egli prese l'illustre soprannome di Cesare, ma aveva troppo buon senso per non mai sperare di essere confuso, o desiderare d'essere paragonato con questo grand'uomo. Fu proposto nel Senato di decorare il ministro di quel corpo con un titolo nuovo, e dopo una discussione ben seria, fu tra molti altri scelto quello di Augusto, come più degli altri esprimente il carattere di pace e di santità da lui uniformemente affettato241. Era perciò il nome di Augusto distinzione personale, e quel di Cesare distinzione di famiglia. Il primo avrebbe dovuto naturalmente spirare col Principe, al quale era stato compartito, e l'altro poteva trasmettersi per mezzo dell'adozione e dei matrimonj in altre famiglie. Nerone era dunque l'ultimo Principe, che potesse allegare qualche ereditario diritto agli onori della discendenza di Giulio. Ma alla sua morte questi titoli si trovavano connessi, per una pratica costante di un secolo, alla dignità Imperiale, e sono stati conservati da una lunga successione d'Imperatori romani, greci, franchi e tedeschi, dalla rovina della Repubblica fino a dì nostri. Fu presto per altro introdotta una distinzione. Il sacro titolo di Augusto fu sempre riservato al Monarca, mentre il nome di Cesare venne più liberamente conferito a' suoi parenti; ed, almeno dal regno di Adriano in poi, con quest'appellazione si distinse la seconda persona nello Stato, che fu risguardata come l'erede presuntivo dell'Impero.

      Il tenero rispetto di Augusto per una libera costituzione, che avea egli stesso distrutta, non si può spiegare che con un attento esame del carattere di questo scaltrito tiranno. Un sangue freddo, un cuore insensibile, ed un animo codardo gli fecero prendere, all'età di diciannov'anni, la maschera dell'ipocrisia, che mai più non si tolse dal viso. Con la stessa mano, e forse con lo spirito stesso, sottoscrisse la proscrizione di Cicerone, ed il perdono di Cinna. Artificiali erano le sue virtù come pure i suoi vizj; ed il suo interesse soltanto lo fece prima il nemico, e poi il padre di Roma242. Quando innalzò l'ingegnoso sistema dell'autorità imperiale, la sua moderazione era infinita da' suoi timori. Desiderava allora d'ingannare il popolo con l'immagine della civile libertà, e gli eserciti con l'aspetto di un Governo civile.

      La morte di Cesare gli stava sempre dinanzi agli occhi. Aveva, è vero, colmati i suoi aderenti di ricchezze e di onori, ma si ricordava, che gli amici più favoriti del suo zio erano stati nel numero dei congiurati. La fedeltà delle legioni potea difendere la sua autorità contro una ribellione scoperta, ma la loro vigilanza non poteva assicurare la sua persona dal pugnale di un risoluto repubblicano; ed i Romani, che veneravano la memoria di Bruto243, avrebbero applaudito a un imitatore di lui. Cesare avea provocato il suo destino più con l'ostentazione della sua potenza, che con la potenza medesima. Il Console o il Tribuno avrebbe potuto regnare in pace, ma il titolo di Re aveva armati i Romani contro la sua vita. Sapeva Augusto, che gli uomini si lasciano governare


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<p>235</p>

Dione, l. LIII p. 703, 704, ha dato un debole, e parziale prospetto del sistema Imperiale. Per illustrarlo ho meditato Tacito, esaminato Svetonio, e consultato i seguenti moderni: L'Ab. de la Bleterie Mem. dell'Accad. Tom. XIX, XXI, XXIV, XXV, XXVII; Beaufort, Repub. Rom. I p. 255. 275; due Dissert. di Noodt, e di Gronov. De lege Regia stampate a Leida nel 1731; Gravina De Imp. Rom. p. 479 544 de' suoi Opuscoli; Maffei Verona illustr. p. 1 p. 245 cc.

<p>236</p>

Un Principe debole sarà sempre governato dai suoi domestici. La potenza degli schiavi aggravò la vergogna dei Romani, ed i Senatori fecer la corte a un Pallante, e ad un Narciso. Può accadere che un favorito moderno sia un gentiluomo.

<p>237</p>

Vedi un Tratt. di Van-Dale De consacrat. Principum. Sarebbe più facile per me il copiare, di quel che sia il verificare le citazioni di questo dotto Olandese.

<p>238</p>

Ved. una Dissert. dell'Ab. di Mongault nel I vol. della Accad. dell'Iscrizioni.

<p>239</p>

«Jurandasque tuum per nomen ponimus aras» dice Orazio all'Imperatore istesso, e Orazio conosceva bene la Corte di Augusto.

<p>240</p>

Vedi Cicerone Philipp. I 16; Giuliano in Caesaribus.

Inque Deum templis jurabit Roma per umbras esclama Lucano sdegnato. Ma questa indignazione è originata più dal patriottismo, che dalla devozione.

<p>241</p>

Dione lib. LIII. p. 710 colle note curiose di Reimar.

<p>242</p>

Mentre Ottaviano si avanzava verso il banchetto dei Cesari, il suo colore cambiava come quello del Camaleonte, pallido prima, di poi rosso, indi nero; prese finalmente il delicato colore di Venere, e delle Grazie: Caesares, p. 309. Questa immagine, impiegata da Giuliano nella sua ingegnosa finzione, è giusta e graziosa. Ma quando ei considera questo cambiamento di carattere come reale, e che lo attribuisce al potere della filosofia, egli fa troppo onore alla filosofia, e ad Ottaviano.

<p>243</p>

Dugent'anni dopo lo stabilimento della Monarchia, l'Imperatore Marco Aurelio vanta il carattere di Bruto come un perfetto modello della virtù romana.