Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 1 - Edward Gibbon


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la Persia era governata dai discendenti di Sefi, Principi che con brutal crudeltà lordavano spesso il lor Divano, la mensa, ed il letto col sangue dei lor favoriti, si racconta il detto di un giovane gentiluomo, ch'egli non mai si partiva della presenza del Sultano, senza toccarsi la testa, quasi dubitando se gli stesse ancora sul collo. L'esperienza di ogni giorno poteva giustificare lo scetticismo di Rustano268. Ciò non ostante la spada fatale, sospesa sopra il suo capo con un sol filo, non pare che turbasse il sonno, o alterasse la tranquillità del Persiano. Sapeva che uno sguardo del Monarca poteva ridurlo in polvere, ma un colpo di fulmine o di apoplessia poteva tornargli egualmente mortale; ed era dovere di un uomo saggio lo scordarsi delle calamità inevitabili della vita in mezzo ai piaceri dell'ore fugaci. Si gloriava di esser chiamato schiavo dei Re; egli comprato forse da oscuri parenti in un paese non mai da lui conosciuto, allevato dalla sua fanciullezza nella severa disciplina del serraglio269. Il suo nome, la sua ricchezza, i suoi onori eran dono di un padrone che poteva senza ingiustizia riprendersi ciò che gli avea donato. Il discernimento di Rustano, se pur ne avea, non serviva che a confermare i suoi costumi co' pregiudizj. Nel suo linguaggio non v'eran parole per esprimere altro governo che la monarchia assoluta. La storia orientale gl'insegnava che tale era sempre stata la condizione degli uomini270. Il Corano e gl'interpreti di quel libro divino gli ripetevano, che il Sultano era il discendente del Profeta, e il vicerè del Cielo, che la pazienza era la prima virtù di un Mussulmano, ed una illimitata obbedienza il gran dovere di un suddito.

      Lo spirito dei Romani era preparato molto diversamente per la schiavitù. Oppressi sotto il peso della lor propria corruzione e della militare violenza, per lungo tempo essi conservarono i sentimenti, o almeno le idee dei liberi loro antenati. L'educazione di Elvidio e di Trasca, di Tacito e di Plinio fu la stessa che quella di Catone e di Cicerone. Dalla filosofia greca essi avevano attinte le nozioni più giuste e più generose intorno alla dignità dell'umana natura, ed all'origine della civil società. La storia della lor patria aveva loro insegnato a venerare una Repubblica libera, virtuosa e trionfante, ad abborrire i fortunati delitti di Cesare e di Augusto, e a disprezzare internamente quei tiranni che adoravano con la più abbietta adulazione. Come magistrati e Senatori, erano ammessi in quel gran Consiglio, che aveva una volta dettate leggi alla Terra, il cui nome dava ancora la sanzione agli atti del Monarca, e la cui autorità era così spesso prostituita ai più vili disegni della tirannide. Tiberio e quegl'Imperatori, che adottarono le sue massime, procurarono di velare i loro assassinj con le formalità della giustizia, e forse gustavano un piacer secreto nel rendere il Senato complice e vittima insieme della lor crudeltà. Da questo corpo, gli ultimi degni d'esser chiamati Romani furon condannati per delitti immaginari o per reali virtù. I loro infami accusatori affettavano il linguaggio di patriotti indipendenti, che accusavano un cittadino pericoloso dinanzi al tribunale della sua patria; e questo pubblico servizio era premiato con ricchezze ed onori271. I giudici servili dichiaravano di sostenere la maestà della Repubblica, violata nella persona del suo primo magistrato272, alla clemenza del quale più applaudivano nel tempo, in cui più temevano la inesorabile sovrastante di lui crudeltà273. Il tiranno riguardava la loro viltà con giusto disprezzo, ed ai loro sentimenti secreti di detestazione corrispondeva con un odio sincero e scoperto per tutto il Corpo senatorio.

      II. La divisione dell'Europa in un numero di Stati indipendenti, connessi però gli uni con gli altri per la general somiglianza di religione, di lingua e di costumi, produce le conseguenze più utili per la libertà del genere umano. Un moderno tiranno, a cui non facesser resistenza i rimorsi ed il popolo, troverebbe ben presto un efficace ritegno nell'esempio de' suoi eguali, nel timore della presente censura, negli avvertimenti de' suoi alleati, e nelle minacce de' suoi nemici. L'oggetto del suo sdegno, fuggendo dagli angusti limiti de' suoi Stati, otterrebbe facilmente in un clima più felice un sicuro rifugio, una nuova fortuna adeguata al suo merito, la libertà di lagnarsi, e forse i mezzi di vendicarsi. Ma l'Impero dei Romani si stendeva per tutto il Mondo, e quando cadde nelle mani di un solo, divenne una prigione sicura e terribile pei suoi nemici. Lo schiavo del dispotismo imperiale, o fosse condannato a strascinar le sue dorate catene in Roma o nel Senato, o a passar la vita in esilio sulle rupi scoscese di Serifo, o sulle gelide rive del Danubio, aspettava il suo fato con tacita disperazione274. Funesta era la resistenza, e la fuga impossibile. Per ogni parte era cinto da una vasta estensione di mare e di terra, ch'esso non mai poteva sperar di valicare senza essere scoperto, preso, e restituito al suo Sovrano irritato. Al di là dei confini, la sua vista ansiosa non iscopriva che l'Oceano, deserti inospiti, tribù nemiche di Barbari, di costumi feroci e di linguaggio sconosciuto, o Re dipendenti, che con piacere avrebber comprata la protezion dell'Imperatore con il sacrificio di un reo fuggitivo275. Dovunque siate, dice Cicerone all'esiliato Marcello, ricordatevi che voi siete egualmente dentro le forze del conquistatore276.

      CAPITOLO IV

      Crudeltà, pazzie ed uccisioni di Commodo. Elezione di Pertinace. Suoi tentativi per riformare lo Stato. È trucidato dai Pretoriani.

      Una dolcezza naturale, che la rigida disciplina degli stoici non avea potuto distruggere, era la qualità più amabile, ad un tempo, e l'unico difetto pel carattere di Marco Aurelio. Il suo eccellente discernimento fu spesso ingannato dalla non diffidente bontà del suo cuore. Era egli circondato da uomini artificiosi, i quali, abili a studiar le passioni dei Principi e a nasconder le proprie, se gli accostavano coperti da un finto velo di filosofica santità, e si procacciavano ricchezze ed onori, coll'affettare di disprezzarli277. La sua eccessiva indulgenza verso il fratello, la consorte ed il figlio, passò i limiti di una virtù privata, e divenne una pubblica offesa per l'esempio e le conseguenze funeste che i loro vizj produssero.

      Faustina, figlia di Antonino Pio e moglie di Marco Aurelio, non è meno famosa per le sue disonestà che per la sua bellezza. La grave semplicità di quel Principe filosofo non era capace di fermare la licenziosa incostanza di lei, o di fissare quella sfrenata passione di varietà, che le faceva spesso trovare un merito personale nel più vile degli uomini278. Il Cupido degli antichi era, generalmente, una divinità molto sensuale; e gli amori di una Imperatrice, costringendola a fare essa prima le più aperte dichiarazioni, rade volte sono suscettivi di una gran delicatezza di affetti. Marco Aurelio pareva o insensibile ai disordini di Faustina, o il solo in tutto l'Impero che gl'ignorasse. Questi, atteso il falso pregiudizio di tutti i secoli, gettarono qualche disonore sopra l'offeso consorte. Egli promosse molti degli amanti di lei a cariche onorevoli e lucrose279, e per trent'anni continui le diede prove invariabili della più tenera confidenza e di un rispetto che non terminò se non con la di lei vita. Nelle sue Meditazioni Marco Aurelio ringrazia gli Dei, per avergli concessa una moglie così fedele, così amabile, e di una semplicità di costumi tanto maravigliosa280. Il Senato ossequioso la dichiarò Dea, alle sue premurose richieste. Era ella rappresentata, ne' tempj a lei dedicati, con gli attributi di Giunone, di Venere e di Cerere, e fu decretato, che la gioventù dell'uno e dell'altro sesso andasse nel giorno nuziale a porger voti dinanzi all'altare della casta lor Protettrice281.

      I vizj mostruosi del figlio hanno adombrato lo splendore delle virtù del padre. Si è rimproverato a Marco Aurelio di avere scelto un successore piuttosto nella sua famiglia che nella Repubblica, e sacrificata la felicità di milioni d'uomini alla sua eccessiva tenerezza per un indegno ragazzo. L'attento padre, per altro, e i dotti e virtuosi uomini, dei quali cercò l'assistenza, niente trascurarono per estendere il limitato intelletto del giovane Commodo, per correggerne i vizj nascenti, e per renderlo degno del trono a lui destinato. Ma la forza dell'educazione raramente è molto efficace, eccetto in quelli nati con felici disposizioni, ed ai quali è quasi superflua. I frivoli discorsi di un indegno Favorito facevano


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<p>268</p>

Viaggio di Chardin nella Persia vol. III p. 293.

<p>269</p>

L'uso d'innalzare gli schiavi alle cariche importanti dello Stato è più comune tra i Turchi che tra i Persiani. Nelle miserabili contrade della Georgia o della Circassia nascono i padroni della maggior parte dell'Oriente.

<p>270</p>

Chardin dice che i viaggiatori europei hanno diffusa tra i Persiani una certa idea della libertà e moderazione de' nostri Governi; essi hanno fatto loro un pessimo uffizio.

<p>271</p>

Citavano essi l'esempio di Scipione e di Catone. (Tacito Annali III 66.) Marcello Eprio e Crispo Vibio aveano acquistato quasi cinque milioni di zecchini sotto Nerone. La loro ricchezza, benchè aggravante i loro delitti, li protesse sotto Vespasiano; ved. Tac. Stor. IV 43. Dialog. de Orat. cap. 8. Per una accusa, Regolo, oggetto degno della satira di Plinio, ricevè dal Senato gli ornamenti consolari, e un donativo di centoventimila zecchini.

<p>272</p>

Il delitto di lesa Maestà era da prima una offesa di alto tradimento contro il Popolo romano. Augusto e Tiberio, come Tribuni del popolo, lo applicarono alla lor propria persona, dandogli una estensione infinita.

<p>273</p>

Poi che la virtuosa e sventurata vedova di Germanico fu messa a morte, Tiberio ricevè i ringraziamenti del Senato per la sua clemenza. Non era stata pubblicamente strangolata, nè il cadavere fu strascinato alle Gemonie dove si esponevano quelli dei malfattori ordinarj. Ved. Tac. Ann. 25 Sveton. in Tiberio c. 53.

<p>274</p>

Serifo, isola del mare Egeo, era un piccolo scoglio, i cui abitanti erano disprezzati per la loro ignoranza, ed oscurità. I versi di Ovidio ci hanno fatto ben conoscere il luogo del suo esilio con i suoi giusti, ma vili lamenti. Pare che egli ricevesse solamente l'ordine di lasciar Roma in tanti giorni, e trasportarsi a Tomi. Ubbidì senza essere accompagnato nè da guardie nè da carcerieri.

<p>275</p>

Sotto Tiberio, un cavaliere romano tentò di fuggire tra i Parti, ma fu arrestato nello stretto della Sicilia. Quest'esempio però parve tanto poco pericoloso, che il più geloso dei tiranni sdegnò di punirlo. Tacit. Ann. VI 14.

<p>276</p>

Cic. ad familiares IV 7.

<p>277</p>

Ved. i rimproveri di Avidio Cassio Stor. Aug. p. 45. È vero che questi sono i discorsi di un ribelle, ma la fazione esagera più di quello che inventi.

<p>278</p>

«Faustinam satis constat apud Cayetam conditiones sibi, et nauticas et gladiatorias elegisse». Stor. Aug. p. 30. Lampridio spiega qual sorta di merito piacesse a Faustina e le condizioni ch'essa esigeva; Stor. Aug. p. 102.

<p>279</p>

Stor. Aug. p. 34.

<p>280</p>

Meditazioni lib. I. Il Mondo si è riso della credulità di Marco, ma la sig. Dacier ci assicura (e ad una donna in ciò deve credersi) che il marito sempre sarà ingannato se la moglie sa dissimulare.

<p>281</p>

Dione Cassio lib. LXXI p. 1195. Stor. Aug. p. 33. Commentario di Spanheim sopra i Cesari di Giuliano p. 389. L'apoteosi di Faustina è il solo difetto, che il critico Giuliano possa scoprire nel perfettissimo carattere di Marco Aurelio.